sabato 31 maggio 2014

SERRAVALLE PISTOIESE

Serravalle Pistoiese ha tutta la sua storia nel nome: Serra la valle e di là c'è Pistoia.
Questa ricerca etimologica ci è costata ore e ore di ricerche su testi vetusti... non è vero, ce lo siamo inventato! Ma mica tanto, dopotutto, Perchè è vero che l'antico borgo, è situato su una collina che chiude (quindi, serra...) la valle di Prato-Firenze -Pistoia dalla Valdinievole. Inoltre è il punto di congiunzioni tra le ultime propaggini dell'Appennino Tosco-Emiliano e il Montalbano.
Insomma, un posto ideale per costruire una fortezza di avvistamento. Ed infatti qui ce ne sono ben due:
la Fortezza Nuova, di cui rimangono i ruderi di lunghi tratti di mura, e l'impontente torre a base quadrata. Quest'ultima è visitabile, sempre che non si soffra di vertigini; infatti le scale interne sono tutte in grigliato metallico, e confondono un po' la vista, specie scendendo.

La Fortezza Nuova fu voluta da Federico Barbarossa, che tanto si è divertito a costruire un po' dappertutto in Toscana, tanto è vero che la Torre è detta "Del Barbarossa".

Dall'altra parte del Borgo, sorge invece la torre detta "Di Castruccio" (Castracani), che è quello che rimane della fortezza costruita dai Lucchesi intorno al 1300.

Insomma, un sacco di gente importante è stata qui!
E sicuramente avevano ragione, sia perchè negli anni litigiosi del Medioevo questo era sicuramente un luogo che permetteva di avvistare i nemici anche da molto lontano, sia perchè in anni più recenti, doveva essere un luogo assai ameno per vivere e per villeggiare, come dimostra questa curiosa targa posta sul muro di cinta di una elegante villa all'ingresso del paese.

Purtroppo adesso è un luogo che sarebbe adattissimo per sorvegliare l'autostrada, perchè la A11 vi scorre proprio sotto (e si sente...) permettendo di vederne un'amplissimo tratto sia verso Pistoia che verso Lucca.

Su Serravalle Pistoiese c'è un'antica tradizione di cui vogliamo raccontare: il miracolo di San Ludovico.
Lodovico D'Angio', figlio del Re Carlo D'Angio', passò da queste parti da bambino insieme ad un suo anziano tutore; erano entrambe stanchi e affamati per i disagi del viaggio. Gli abitanti del Borgo li accolsero, ospitandoli e rifocillandoli. Il futuro santo, noto come San Ludovico da Tolosa, promise la sua protezione al villaggio.
Nel 1306 ci fu la prima occasione per tener fede alla promessa: infatti i Lucchesi, che avevano messo a ferro e a fuoco Pistoia insieme ai Fiorentini (va bene: Lucchesi e Fiorentini se le davano di santa ragione un giorno sì e uno no, ma se c'era l'occasione di depredare, uccidere, radere al suolo, volete che i Fiorentini si facessero mancare l'occasione?! ma si sarebbero alleati anche con il diavolo, figuriamoci con i Lucchesi), tornando a casa loro pensarono :" ma perchè dobbiamo lasciare questi qui belli e tranquilli? ci passiamo davanti, che ci costa? Deprediamo, uccidiamo e radiamo al suolo anche loro".
E così si apprestarono a fare. La popolazione, terrorizzata, non trovò di meglio che affidare l'anima a Dio con una solenne Orazione, mentre quest'altri stavano dando assedio alle mura. Improvvisamente su una torre apparve un cavaliere con una spada fiammeggiante, avvolto in una nube risplendente.
Calò una fitta nebbia e gli assalitori si sentirono come respinti da una forza misteriosa: fecero i loro conti e decisero che era meglio darsela a gambe.
Una seconda volta San  Ludovico protesse Serravalle: alla fine della Seconda Guerra Mondiale,  le truppe tedesche stavano lasciando la zona, e avevano deciso di radere al suolo non solo il paese, ma tutta la collina, facendo esplodere un treno minato dentro la galleria che passa proprio lì sotto. (Tutte le fonti parlano di un treno, ma la galleria che passa sotto alla collina è una galleria autostradale.Mah...)
Nessuno degli inneschi delle bombe caricate sul treno esplose, e questo salvò nuovamente il paese dalla distruzione.
La popolazione era così devota a San Ludovico, che esisteva una disposizione comunale per cui tutti i nati dovevano avere, insieme al loro nome, anche il nome di Lodovico o Lodovica.
Magari questa norma adesso sarà un po' caduta in disuso, ma è certo che la grande festa dedicata al Santo, il 19 Agosto, è molto sentita dalla popolazione, ed è festeggiata con gran pompa, sia religiosamente che civilmente.

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domenica 18 maggio 2014

E BASTA CON MONTECATINI! PARLIAMO DI PIEVE A NIEVOLE

Parlare di Montecatini, diciamocelo...è banale.
La più famosa stazione termale della Toscana, i palazzi delle terme in stile Liberty, i viali alberati, i parchi dove si passeggia con il bicchiere in mano - e non è Martini quello che bevono le eleganti signore con l'ombrellino - e, in periodi più recenti, la città  dall'alta concentrazione di night-club, locali di lap-dance e strip-tease  (e conseguenti operatrici del settore).
Quindi: cambiamo aria.
Parliamo di Pieve e Nievole.
Si costituì comune nel 1905. Non senza difficoltà, perchè la sua estrema vicinanza a Montecatini Terme ne ha resa sempre difficoltosa l'autonomia. Infatti si distaccò dal comune di Montecatini Valdinievole, di cui era stato finora solo una frazione, solo perchè l'Onorevole Ferdinando Martini ne prese a cuore le sorti.
Il borgo si forma intorno all'antichissima Pieve di San Pietro a Neure, situata su una diramazione della Cassia, detta Cassia Minor.

La fondazione della pieve è molto più antica di quello che di solito si trova in zona; pare che sia stata fondata dal vescovo di Lucca prima dell'invasione Longobarda, e quindi verso il 570.

Il nome Pieve a Nievole è dato dalla antichissima Pieve e dal nome del fiume Nievole, che scorre lì vicino e che dà il nome a tutta la valle - valdinievole, appunto. Il nome Nievole sembrerebbe derivare da Vallis Nebulae, cioè valle della nebbia. Infatti qui siamo vicini al Padule di Fucecchio, e sicuramente a quei tempi la nebbia in quella zona non mancava.
Il nome stesso della Pieve -  Neure - indica proprio un fiume che scorre, in qualche antica lingua di radice semitica.
Sempre a proposito di fiumi e di ponti, qui in zona c'è un ponte, detto "di Dante" dove è riportata una storica frase pronunciata dallo stesso mentre aspettava di conoscere l'esito dell'ennesima battaglia tra Guefi e Ghibellini. Ad un soldato che gli chiedeva se avesse visto un certo Dante Alighieri, rispose: "c'era quando c'ero".

E c'era bisogno di essere Dante, per dire una cosa del genere....
A imperituro ricordo dell'avvenimento, c'è questa targa sul ponte dove è accaduto il fatto.
Nei pressi c' anche questa bella edicola sacra.






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domenica 11 maggio 2014

L'IPPODROMO DI PRATO

A Prato.
Sono sempre stati là...
I giardini dell'Ex Ippodromo.
Che ora si chiamano "Parco della Liberazione e della Pace".
Ci andavamo quando eravamo bambini, e tutti noi piccoli pratesi nati negli anni sessanta, abbiamo percorso il tunnel che attraversava la piccola collinetta.
E' stata una delusione terribile vedere che il vecchio tunnel con tre uscite è stato interrato, ed è diventato una collinetta.

Ma sapevamo che negli ultimi anni era diventato un posto equivoco, un covo di spacciatori di droga, per cui il comune ha deciso di eliminarlo. Che peccato, però!
Abbiamo mangiato il gelato dal furgoncino del "Morino", che fungeva anche da croccantaio e vendeva pure i brigidini. Questa è l'unica cosa che c'è ancora!

Le nostre mamme si sono annoiate per interi pomeriggio a vederci correre, o ancora di più a farci girare a mano sulle giostrine.
Tuttavia, il parco  mantiene ancora un'impronta ludica: qui si ritrovano ogni domenica gruppi di indiani per giocare a criket.

Ma perchè si chiamano "ex ippodromo"?
La strada accanto si chiama "via dell'ippodormo"
In fondo c'è un cancello dove - ci ricordiamo - erano i box dove c'erano i cavalli.
Tutti gli indizi ci fanno pensare che ci sia stato un Ippodromo!!
Per saperne qualcosa di più abbiamo dovuto chiedere a persone molto anziane, perchè in giro non si trova una riga su questo ippodromo.
Il prato centrale ricordava, fino a qualche anno fa, la sua funzione perchè molto vagamente si intuiva l'anello della pista, e la piccola costruzione posta sul lato lungo della stessa potrebbe essere stata il luogo da dove lo starter dava le partenze, oppure quello da dove i giudici vedevano la gara.
Adesso la piccola costruzione - era fatiscente vent'anni fa, quindi sarà stata demolita - non c'è più.
Il terreno, in oltre sessant'anni ha perso il leggero avvallamento circolare  che poteva ricordare l'anello della pista, e la recinzione che chiude l'area dei box dei cavalli - chiusa da diversi anni . e una fila di pali piantati a circa tre quarti dell'anello, peggiora ulteriormente le cose.

In pratica è impossibile, per chi non conosce la storia, immaginare che lì c'è stato un ippodromo.
Eppure c'è stato!
Non abbiamo date certe in mano, proprio perchè la memoria di queste persone deve ricordare fatti molto lontani.
Sicuramente non era un ippodromo dove si facevano gare importanti.
Deve aver iniziato l'attività nei primi anni venti, e chiuso la sua precaria carriera - che sicuramente la seconda guerra mondiale non ha aiutato -  nel 1950 o giù di lì.
Di questo ippodromo abbiamo trovato solo notizie di una sfida tra un aereo e una automobile che si è tenuta qui nel 1927.
E' stata la prima sfida tra un aereo e una autovettura che si è svolta in Italia, antecedente a quella tra  Nuvolari e Suster,che si svolse all'aereoporto dell'Urbe di Roma, e che risale solo al 1931!
Fu senza subbio l'evento più importante che sia stato tenuto in questo ippodromo, di cui non conosciamo nemmeno il nome!
Lo starter fu nientemeno che Mario De Bernardi, asso dell'aviazione della prima guerra mondiale, nonchè vincitore della Coppa Schneider del 1926.
La sfida era tra Vasco Magrini, aviatore fiorentino, su un caccia Hanriot Hd.1

Hanriot HD1 conservato al museo di Vigna di Valle simile a quello usato nella sfida
e il corridore automobilistico Emilio Materassi, nativo di Borgo San Lorenzo, su Bugatti 35C.
Con questi nomi in campo, la gara ebbe un'eco vastissima,e  la sfida fu pubblicata da Magrini addirittura sulle pagine de "La Gazzetta dello Sport".
Materassi, che era un vecchio amico di Magrini, accettò la sfida pubblicando la risposta su "La Nazione" del 10 novembre 1927.
La posta della scommessa era stellare per l'epoca: ben 20.000 lire!!
La sfida fu fissata per il 27 novembre: 30 giri della pista - un chilometro esatto - partenza alle 15.30.
Nei giorni precedenti la gara era piovuto molto, per cui il terreno pesante sfavorì la Bugatti di Materassi.
Vinse infatti Magrini, che concesse la rivincita all'amico: purtroppo non si potè disputare, perchè Materassi morì in un incidente di gara il 9 settembre 1928 a Monza.
Ecco: questo è tutto quello che sappiamo su questo Ippodromo. Chiunque ne sa qualcosa e vorrà aiutarci a completare questa storia sarà il benvenuto!!

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domenica 4 maggio 2014

IL ROSETO FINESCHI

A Cavriglia, nel cuore del Chianti, abbiamo visitato lo straordinario Roseto Botanico "Carla Fineschi", autentico "museo vivente" della rosa.

La definizione è perfettamente calzante, infatti è un vero e proprio museo, perchè vi si trova un collezione straordinaria di tutto il genere definito "rosa"; rose selvatiche, rose botaniche e rose moderne, ottenute per ibridazione.
Vivente, perchè queste splendide creature, allo stesso tempo altere e soavi, dai colori brillanti e dai profumi incantevoli, sono vive - e ci guardano: una poetica citazione del poeta e commediografo irlandese Richard Brinseley Sheridan "non vorresti entrare nel mio giardino? Mi piacerebbe che le mie rose ti vedessero" ci porta diritti al nome del vivaio collegato al Roseto, che ha l'evocativo nome di "Occhi di Rosa". Bello, eh?!
Ammirati da tanta bellezza, non abbiamo potuto far altro che documentarci, lungo i vari percorsi previsti dal Roseto Botanico, sulla magica storia delle rose, così come le conosciamo adesso.
Si parte da molto lontano:
La Rosa Gallica, conosciuta fin dal periodo romano, era una pianta officinale, tanto che era definita anche "Rosa degli Speziali" e si coltivava nei giardini dei semplici, e non in quelli ornamentali.
Come tutto quello che concerneva l'impero romano-  che la esportò dovunque nei sui territori-  anche la coltivazione della Rosa Gallica Officinale, cessò con la caduta dell'impero romano. La leggenda vuole che sia stata reintrodotta in Francia dal principe Thibauld, re di Champagne e Navarra, di ritorno dalle crociate alla sua Provins, quindi intorno al 1240.
Per il suo colore rosso brillante era chiamata anche "brache di lanzo", dal colore dei pantaloni dei Lanzichenecchi...
Poi, con il tempo, si verifica una mutazione della Gallica Officinalis, in Gallica Versicolor, che comincia ad essere coltivata per puri scopi ornamentali. Si tratta di una rosa bianca, screziata di cremisi, inizialmente a 5 petali, e poi forse per questo motivo, diventando cioè "Orticola", i suoi  petali sono diventati 15 o 20.
In questa versione semidoppia e in rosso brillante, viene importata nel 1279 in Inghilterra da Edmud di Croucback, più noto come  Edmondo Plantageneto detto il Gobbo, nonchè primo conte di Lancaster. La rosa gli piacque tanto che ne fece il simbolo della propria casata: già proprio quella che combattè la famosa guerra delle due rose, tra il 1455 e il 1455, contro gli York, che invece per emblema avevano un rosa bianca. Nel frattempo i Tudor aspettavano pazientemente che finissero di scannarsi tra di loro, per acquisire le loro terre e prendere il loro posto come pretendenti al trono. Ma..questa è un'altra storia.
Torniamo alle nostre rose Galliche Versicolor, che furono poi coltivate - e commercializzate - in Olanda sino alla fine del XIII secolo.
Poi, successe che, il sig. Peter Osbeck nel 1752 - che oltretutto era anche un discepolo di Linneo - portò a Uppsala da Canton, una rosa chinensis, che fu denominata "Old Blush".
Quella che fu conosciuta al tempo con questo nome, però era già il frutto di secoli di ibridazioni dei giardinieri cinesi!
Nel 1759 fu importata in Inghilterra dalla Compagnia delle Indie, ed infatti per molti e molti anni fu conosciuta come "Rosa del Bengala", cioè con il nome con cui gli Inglesi conoscevano l'India.  A tutt'oggi questa varietà è conosciuta con il nome di Chinensis o Indica.
I colori della rosa del Bengala erano tantissimi e tutti splendidi: le varietà di colore giallo erano chiamate tea (o thea) perchè trasportate sulle navi che portavano il tè in Inghilterra. C'è chi dice che le foglie di questa rosa avessero un vago sentore di questa bevanda..
Da lì in poi, il binomio rosa+Inghilterra è diventato sinonimo di giardinaggio e ibridazioni sempre più belle. Tra le prime abbiamo questa rosa rampicante (ramble o climber? mah...) che è un po' l' archetipo della rosa vittoriana nei giardini romantici: è la rosa Banksiae (o rosa di Lady Banks), importata dalla Cina nel 1807.  Si tratta di una rosa assai piccola e priva di aculei, dai fiori bianchi o giallo molto pallido, radunati in piccoli mazzetti (che si chiamano corimbi), dal profumo inebriante di violetta.

Altre varietà sono la Rosa Damascena, o di Damasco, che è un incrocio  tra le rosa Gallica e la Rosa Moschata (o Mosqueta).
E' una varietà di rosa antica che può arrivare ad avere sino a trenta petali, e si coltiva in special modo nella valle delle rose in Bulgaria, e poi a Isparta in Tuchia e ad Isfahan in Iran.
E' una rosa che viene coltivata specialmente per ottenere l'essenza di rosa: Un chilo di essenza corrisponde a circa 3,5 tonnellate di petali!!, i quali si colgono solo nei mesi di maggio e giugno, e solo alla mattina prestissimo, per mantenerne la fragranza, un po' come la pianta del tè.
Ah, e la rosa Moscheta? E' un arbusto selvatico che predilige le zone umide e fredde, e proviene dal Sudamerica, dove era utilizzata per le sue virtù terapeutiche, da noi sconosciute fino a poco tempo fa.

Gli incroci tra Gallica e Moscheta hanno dato origine a tutta una serie di ibridi denominati "floribunda", che significa "multi-fioritura", una caratteristica moderna molto apprezzata rispetto alle rose antiche, che invece fioriscono una sola volta, quasi sempre ad inizio primavera.
Comunque classificare le rose è quasi impossibile per la grandissima varietà di ibridi esistenti: meglio dividerle semplicemente in rose antiche, dall'aspetto simile alle camelie e molto profumate, e rose moderne, quindi la rosa come la visualizziamo oggi, dal bocciolo più stretto, dal gambo lungo e quasi senza profumo.
Torniamo al nostro Roseto Botanico, che ci fa conoscere anche varietà molto particolari come le miniature, rose di piccolissime dimensioni, create da Moore nel 1937, e derivanti da una mutazione spontanea registrata qualche anno prima. Sono resistentissime al freddo, ma soffrono molto la mancanza d'acqua.

Interi riquadri sono dedicati ai più noti ibridatori di ogni continente: Kordes, Meilland, La Perriere, Austin, del quale si possono ammirare delle splendide Gallicane, base delle rose antiche inglesi

Sono presenti anche ibridatori americani - assai difficili da trovare in Italia - come Swim & Weeks, o Armstrong.
Ampio spazio è dedicato agli ibridatori italiani, di cui il più famoso è Barni di Pistoia.
Tra le  tante meravigliose rose che si possono ammirare, ci è piaciuta particolarmente la Betty Boop.

Nel meraviglioso giardino che è il Roseto Botanico, ci sono scorci romantici veramente incantevoli
incontri inaspettati con il vero Gallo Nero (dopotutto qui siamo nel Chianti)

una quantità di pavoni che fanno il loro lavoro (cioè si esibiscono in tutta la loro bellezza)

e soprattutto loro, le rose, quante non se ne possono nemmeno immaginare; veri muri coperti di bellezza.

Il Vivaio "Occhi di Rosa" fornisce anche un interessante e particolarissimo servizio: se si desidera una speciale varietà di rosa, con i dovuti tempi di attesa e tramite tutti i loro contatti, tra ibridatori e collezionisti, possono trovarla e consegnarla.

http://www.rosetofineschi.it/


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giovedì 1 maggio 2014

I MULINI A VENTO (e don Chisciotte non c'entra niente)

Toscana terra di mulini.
Ce n'erano tanti, una volta.
Per dire la verità ci sono ancora, abilmente mascherati da ristorante, agriturismo, albergo, casa d'abitazione di un certo stile. Questo perchè erano sempre situati in bellissimi posti, vicino a corsi d'acqua.
Già, perchè quando si parla di mulini, da queste parti, siamo abituati a pensare ai mulini ad acqua.
I mulini a vento li colleghiamo all'Olanda, principalmente, e alla Spagna - per via del Don Chisciotte del titolo - e poi forse le nostre conoscenze si fermano qui.
In realtà in Italia i mulini a vento sono sempre stati poco diffusi, proprio perchè manca il vento: intendiamoci...manca il vento forte e continuo che possa alimentare un'attività produttiva legata alla molitura.
Questo spiega perchè si sono invece così ampiamente diffusi i mulini ad acqua: l'acqua non manca, e si tratta anche di acque veloci, utili al continuativo funzionamento della macina e suo utilizzo per la produzione di un reddito costante.
Comunque alcuni mulini a vento sono stati costruiti e utilizzati in Toscana e in Sicilia.
Attualmente quasi tutti ruderi, per dire la verità.
Uno solo è stato ottimamente  restaurato ed è perfettamente funzionante.
Si tratta del Mulino di Pontassieve, risalente alla prima metà del XIX secolo.

E' stato restaurato tra il 2001 e il 2002  dal comune di Pontassieve e dall'agriturismo, di cui fa attualmente parte: ma  è proprio sulla strada provinciale, ed è visionabile da chiunque.

In un'altra occasione abbiamo avuto l'opportunità di visitarlo all'interno e gli ingranaggi, completamente in legno, sono stati ricostruiti secondo i disegni originali dell'epoca.




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