domenica 18 dicembre 2016

CERRETO GUIDI E IL PRESEPE ALL'UNCINETTO

Nel periodo natalizio sono molti i paesi che attirano turisti con le caratteristiche "vie dei presepi", dove in ogni vetrina di negozio, in ogni garage, in ogni portone, puoi trovare un presepe artigianale.
Si tratta spesso di autentici, piccoli capolavori di manualità, ma anche di inventiva.
Noi abbiamo visitato quella di Cerreto Guidi.
Cerreto Guidi è un grazioso paese vicino ad Empoli.
Per arrivarci, vi consigliamo di percorrere la provinciale di San Zio (si, può sembrare un nome strano, ma si chiama così) una strada di crinale che vi farà vedere un panorama assolutamente straordinario, sulle colline ricoperte di viti, e con il colle di San Miniato, che da queste parti, con la sua raterritistica torre, è visibile come un faro, quasi dappertutto.
Il paese antico circonda completamente la villa Medicea, che con la sua doppia scalinata (attribuita al Buontalenti, o perlomeno lo stile è il suo) domina la piazza, dalla quale si ammira un panorama altrettanto strepitoso.
Se avete tempo visitate anche la villa, dove potete ammirare la stanza da letto dove il principe Orsini fece assassinare la moglie, Isabella de Medici, oltre ad una collezione di armi da caccia (non da guerra, da caccia perchè questo è nato come casino di caccia, quindi era il posto più adatto ad esporle) unica nel suo genere.
La "via dei presepi" gira tutta intorno alle villa, e potete trovare delle cose assolutamente deliziose, un mix di inventiva, di utilizzo di quel che c'è, di abilità manuale notevole, come è per esempio questo presepe costruito da un carabiniere del posto, originario di Caserta, e che oltre alle statuine, ha costruito in polistirolo, lavorato e colorato a mano con un'abilità veramente notevole, anche tutte le abitazioni, i cui interni sono stati curati nei minimi dettagli.

Ma la cosa che ci ha veramente lasciato a bocca aperta per l'inventiva, l'abilità costruttiva e progettuale, e per la pazienza infinita che ci è voluta per la sua realizzazione è il presepe all'uncinetto, opera delle "Dame dell'Uncinetto", un gruppo formato da circa 60 signore del borgo.
Queste abilissime artigiane sono coordinate da Gessica Mancini, l'ideatrice del progetto, nonchè coordinatrice del gruppo.
In questo straordinario presepe, che riproduce in maniera fedele sia la villa Medicea  - una cosa veramente straordinaria, perchè la scalinata è tutta a mattoncini, e per riprodurla in maniera fedele,  ogni singolo mattone (sono circa 8.000) è stato lavorato separatamente, e collegato agli altri con un filato più chiaro, per riprodurre la malta che tiene insieme i mattoni - che il paese con tutte le case, le botteghe, gli orti.

La fedeltà alla vita reale è assoluta e minuziosa:
nel campo di grano, ogni singola spiga è lavorata alla perfezione, e in mezzo al campo, di un bellissimo colore dorato, si trovano tanti, tanti papaveri, oltre allo spaventapasseri, così com' è nella realtà.

Nei vasi dei fiori, piccolissimi, si possono contare i petali delle margherite, e sul pergolato, ogni minuscola rosa ed ogni fogliolina, sono riprodotti alla perfezione.
Negli orti, ogni minuscolo ortaggio è realizzato con fedeltà assoluta, persino il laghetto - con vera acqua - nel suo fondo azzurro è realizzato all'uncinetto.
Veramente meravigliosi i salici piangenti, per realizzare i quali sono stati confezionati chilometri di catenella!
Per ogni oggetto è stato scelto il materiale giusto, in modo da dare maggior verità alla riproduzione. Per esempio, per la terra arata di fresco è stato utilizzato del mohair marrone, la strada bianca - lunga decine di metri - è in cotone, mentre le pietre sono in lana, per dare un aspetto più compatto.
Insomma, un capolavoro da ammirare con un po' di tempo a disposizione, in modo da stupirsi ben bene per l'incredibile cura dei particolari.

Tanto per dirne una, sotto gli alberi ci sono i funghi porcini - ovviamente - ma anche anche l'amanita falloide, con il suo cappuccio rosso a pallini bianchi!
Insomma, andateci di corsa perchè l'esposizione finisce il 6 gennaio.

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domenica 11 dicembre 2016

TRE PARCHI URBANI

Siccome ci fanno un po' rabbia quelli che tornano da Londra e dicono che hanno visto un meraviglioso parco al centro della città (Hyde park) e ancora di più ci rimangono sulle scatole quelli che tornano da New York strombazzando a destra e a manca che lì c'è un parco bellissimo proprio nel centro (Central Park) della città, a disposizione di tutta la cittadinanza:
non contenti del fatto che abbiamo parlato del parco della Cascine di Firenze, dicendo che ha proprio le stese caratteristiche dei parchi di cui sopra; 
e anche del parco della Cascine di Tavola, che abbiamo proprio in casa.
Detto questo:
Abbiamo pensato di dare uno schiaffo morale a tutti questi esterofili, che si entusiasmano per Londra e New York, paragonando queste due metropoli nientemeno che a:
Sesto Fiorentino e San Donnino (frazione di Campi Bisenzio)
Cominciamo con Sesto Fiorentino ed il suo parco del Neto.
E' un piccolo parco, circa 8 ettari, incredibilmente collocato in una zona altamente urbanizzata, in località Settimello, al confine tra i comuni di Sesto Fiorentino e Calenzano.

E' quello che rimane della grande zona umida, che una volta ricopriva tutta la piana fiorentina; ma il fatto che sia molto a ridosso di Monte Morello, l'ha resa adatta al suo utilizzo nell'ambito di parchi ottocenteschi, di stile romantico.
Questi parchi, molto diffusi tra i grandi personaggi dell'epoca, ricercavano le paludi - ambienti "drammatici" che ben si adattavano allo spirito romantico-gotico, più diffuso nel nord Europa - e le integravano con alberi particolari.
Questo giardino ha fatto parte della proprietà del marchese di Boissy, secondo marito della contessa Teresa Gamba, amante di Lord Byron.
Più romantico di così...
Nel parco del Neto esistono molti alberi di dimensioni monumentali, ma i più belli sono i Taxodium, detti anche Cipressi di Palude, un albero originario delle Americhe, che predilige gli ambienti umidi e paludosi, e che ha la caratteristica di spogliarsi completamente in inverno, a differenza del nostro cipresso, che invece è un sempreverde.

Al Neto, tra laghetti e canali, tra alberi grandiosi e prati verdi, troverete anche una piccola colonia di coniglietti, molto socievoli e per nulla paurosi, e una gran quantità di pennuti acquatici, che vi accoglieranno con incredibile calore.(ovviamente se portate del pane...)
Passiamo da un parco romantico ad uno molto meno. Perlomeno nel nome.
Il primo parco di San Donnino di cui ci piace parlarvi si chiama molto prosaicamente: "Collettore principale delle acque basse della Viaccia"
Perchè di questo si tratta, in verità: una cassa di espansione dell'Arno.
E' collocato tra la SS66, l'autostrada A1, la zona industriale dell'Osmannoro e l'aereoporto di Peretola e attraversato dal Fosso Macinante.
ma vi consigliamo di andarci, perchè il fondo delle Casse di espansione è composto da piccoli laghetti bordati di canne, dove la "gibigianna" (cioè lo scintillio del sole riflesso sull'acqua), il vento fresco e gli uccelli che si alzano in volo tutti insieme, ti fanno sognare per un attimo di essere in mezzo alla natura, invece che in mezzo alla piana, a dieci minuti a piedi dall'antico borgo di San Donnino!

E comunque si tratta di un luogo molto piacevole: sugli argini più alti sono stati piantati boschetti di alberi - noi ci siamo stati in autunno - che rendono tutto estremamente suggestivo, forse proprio per il contrasto tra la zona così fortemente urbanizzata, e la pace che qui regna.

Il parco è frequentatissimo da proprietari di cani, con i loro animali che qui possono correre liberi, al sicuro dai pericoli, e da ciclisti con mountain-bike, visto che il posto è veramente adatto ad una bella sgambata.
Altro parco di San Donnino.
E' uno dei molti parchi in Italia, dedicati a Chico Mendez, il raccoglitore di gomma amazzonico, ucciso a poco più di quarant'anni da alcuni latifondisti che l'avevano già minacciato di morte in passato, a causa del suo impegno sociale a favore dei "seringueiros" (che sono proprio i raccoglitori di gomma).
Ce ne sono altri a Giulianova, a Terni e vicino a Torino.
Questo però è ricavata da un'antica cava di sabbia - come i Renai di Signa, tanto per capirsi. Ah, a proposito, prima o poi parleremo anche di quello - che ha ricreato in qualche modo l'antica palude che qui era un tempo.
E' straordinario come la natura riesca sempre a tornare alle sue origini!
E' un parco molto bello, con diversi, caratteristici laghetti, popolati dall'aviofauna tipica delle zone umide.

Anche qui eravamo in autunno, e la vegetazione era un'esplosione di colori e di profumi (sempre che passiate lontano dal recinto delle caprette!!).
In estate deve essere molto frequentato dagli amanti del barbecue, visto che ci sono diverse postazioni adatte allo scopo - ovviamente con tutte le istruzioni per l'utilizzo del focolare - e tante tavole con panche per potersi poi godere il frutto delle proprie abilità culinarie.


Quindi un parco adatto alle famiglie, e a chi vuole prendersi il sole senza farsi la coda sull'autostrada, a due passi da casa propria.



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domenica 20 novembre 2016

2 GIOIELLI NASCOSTI A PISTOIA

Se la nostra "mission" è quella di trovare luoghi nascosti e poco conosciuti a portata di gita domenicale, qui abbiamo raggiunto veramente il nostro scopo.
Siamo a Pistoia - quindi ad un tiro di schioppo - e se non avevamo ricevuto una "dritta" da un addetto ai lavori, non avremmo mai trovato questi due splendidi posti.
La prima segnalazione riguarda la Chiesa del Tau, adiacente all'ex convento di Sant'Antonio Abate.
Il convento adesso è sede della fondazione Marino Marini, dove sono esposte le opere dell'artista pistoiese. La chiesa, sconsacrata nel 1787, invece è aperta al pubblico per ammirare quello che resta di una serie di affreschi, dedicati alla vita del santo.
Purtroppo bisogna dire così, quel che resta, perchè la chiesa sconsacrata, era stata adibita ad abitazione, e suddivisa in tre piani, con la conseguente apertura di finestre.
Solo nel 1962 ci si rese conto dell'obbrobrio che si stava commettendo, e la ex chiesa fu acquisita dal comune di Pistoia, che ha provveduto a restaurare quello che rimane il più bel ciclo di pittura murale gotica di tutto il circondario.

Sul soffitto gli affreschi si sono conservati meglio, e qui è ancora possibile ammirare una rarissima raffigurazione della terra dei giganti, un episodio di cui si parla anche nella genesi, ma che è poco raffigurato.

L'altro è l'oratorio di San Desiderio, in un luogo un po' decentrato, rispetto al consueto giro che si può fare del delizioso centro storico di Pistoia.
E infatti è uno dei luoghi meno conosciuti della città, come ci ha confermato una sconsolata custode.
La piccola chiesa, anch'essa sconsacrata, faceva parte di un complesso monastico femminile di ispirazione francescana, ed era adibito al culto del monastero.
Nel Quattrocento viene destinato ad ospedale per i pellegrini, ed in seguito, nel settecento, venduto a dei privati che lo adibiscono a deposito di legname.
Ed infatti, non conserva affatto l'aspetto di una chiesa, non fosse che per lo spettacolare affresco che copre per intero una parete, e che raffigura  - anche in questo caso - un tema inconsueto, poco raffigurato nella pittura religiosa.
Si tratta dell'episodio del centurione Acacio, e del suo battaglione di novemila uomini che furono mandati in Armenia a combattere contro i nemici, in numero di centomila. 
La spaventosa disparità non spaventò gli impavidi eroi, che combattevano in nome della vera fede, a cui tutti erano convertiti.
Quando però l'imperatore seppe che questi eroi erano cristiani, volle farli uccidere, senza tenere conto del loro valore e della loro vittoria.
Ma i vari supplizi a cui erano sottoposti, nulla poterono contro la forza della loro fede, tanto che tra i loro torturatori, altri mille si convertirono al cristianesimo sul loro esempio.
Allora l'imperatore li fece crocifiggere, tutti e diecimila, sul monte Ararat.
L'affresco è opera di Sebastiano Vini, veronese di origine ma pistoiese di adozione, nel 1570 circa.
La particolarità dell'affresco è proprio in questa pittura - che ci dicono essere - di chiara realizzazione non toscana, con dei colori cosiddetti "nordici", perchè estranei alla pittura di quel tempo, nella nostra zona.

L'affresco, per quanto non benissimo conservato, è ancora pienamente leggibile, e starsene un quarto d'ora seduti,  ad ammirare i particolari, è un'esperienza che consigliamo.

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domenica 13 novembre 2016

IL BUNKER DI PUNTA BIANCA

Questa gita ve la consigliamo per il primo autunno, o l'inizio della primavera, perchè pensare di andarci in estate è da folli!
Le strade sono strettissime, e nonostante questo c'è l'indicazione di lasciare libera la corsia centrale per l'eventuale transito di mezzi di soccorso... così, tanto per dire.
Stiamo parlando di Montemarcello, un'incantevole località di mezza collina, da cui si domina il paesaggio straordinario di quello che viene chiamato "Golfo dei Poeti" - un po' d'ispirazione è venuta pure a noi - quindi il golfo dove c'è Bocca di Magra, oppure Lerici.
Tanto per capirsi.
Certo, se vi piace la confusione e la calca, potete andarci anche d'Agosto.
A noi non piace, per cui abbiamo preferito andarci a metà ottobre, in una splendida giornata di sole, e di sicuro qualche coraggioso ha pure fatto il bagno.
Dopo aver visitato il caratteristico paesino di Montemarcello - una frazione del comune di Ameglia, nella Val di Magra ed in provincia di La Spezia - fate questa breve passeggiata, per visitare un'incredibile bunker a picco sul mare.
Si tratta - presumibilmente - di una fortificazione facente parte del cosiddetto "Vallo Ligure", vale a dire quella serie di fortificazioni allestite dalle truppe di occupazione tedesche, lungo le coste della Liguria, allo scopo di sorvegliare e difendere le coste da un'eventuale sbarco delle truppe anglo-americane, durante la seconda Guerra Mondiale.

In realtà, la data di costruzione del fortino di Punta Bianca è piuttosto incerta, perchè alcune fonti la fanno risalire addirittura al 1915,altre ancora al 1923.
Di sicuro nacque come batteria antinave, con quattro pezzi da 152mm, con una gittata che arrivava comodamente sino a Massa!
Per eliminare questa postazione, gli anglo-americani bombardarono duramente la zona, provocando morte e distruzione nel vicino paese di Montemarcello.
In un paese senza memoria come è il nostro, e che ha affidato alla buona volontà ed alla passione dei singoli, il compito di conservare e tramandare il ricordo della linea Gotica, non meraviglia il fatto che le costruzioni del Vallo Ligure siano lasciati nel più desolato degrado.

Eppure il Bunker di Punta Bianca è ancora facilmente accessibile (anche se confessiamo che, per vederlo, abbiamo ignorato a bella posta un cartello di pericolo ed una staccionata...) e sappiamo che le gallerie sotterranee sono ancora percorribili, anche se niente e nessuno ci avrebbe convinto a percorrerle.
E come se non bastasse, la loro imponente architettura in cemento armato, dalle caratteristiche forme rotonde, si inseriscono in un paesaggio dalla bellezza veramente mozzafiato.

Sono a picco sul mare, immerse in una sfolgorante macchia mediterranea, con la famosa Punta Bianca a destra, che nasconde solo parzialmente  il golfo di La Spezia, e tutta la costa versiliese sulla sinistra.
Proseguendo sul sentiero che ci ha portato al fortino, si arriva sino al mare, su grandi scogli piatti, che in estate sono frequentatissimi dagli amanti del sole e del mare, che qui è subito profondo.
A poca distanza c'è un piazzale dove era piazzata la "Batteria Generale Chiodo", dove erano gli alloggi del personale ed altre costruzioni di servizio, che sono rimaste sepolte per anni sotto le loro stesse macerie, e ricoperte poi dalla vegetazione.
In anni recenti, è stata ripulita dalla terra, dalle macerie e dalla vegetazione, ma non è stata dotata di una efficiente segnalazione dei sentieri da percorrere per visitarla, perchè non siamo riusciti a trovarla!!

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domenica 23 ottobre 2016

LA BALENA BIANCA DELL'APPENNINO

Questa è davvero carina.
Vi ricordate che vi avevamo parlato dei "denti di balena" che si trovano nel Mugello e a Lastra a Signa (link).
La dimostrazione dell'esistenza di un mare primordiale nella nostra piana 
PT-PO-FI (se si parla della FI-PI-LI si capisce di che cosa si sta parlando, no? e allora perchè non si dovrebbe capire che così la piana PT-PO-FI? Oppure 
FI-PO-PT, dipende da che parte si vede...chi se ne importa, tanto noi stiamo sempre nel mezzo, ah ah!).
Ma i mari primordiali in Italia a quei tempi erano tanti, e quello della nostra conca non era nemmeno quello più grande.
Più o meno tutte le attuali pianure erano il  fondo di qualche mare. E qual'è la pianura più grande in Italia? La pianura Padana!
Ecco, anche lì c'era un mare. E siccome era parecchio più grande. loro invece di trovare qualche stecca di balena, hanno trovato una balena intera!
Megalomani!
Lo scheletro della balena di Gorgognano, nella Val di Zena - questo il luogo dove è stato trovato il fossile nel 1965 , a nemmeno venti chilometri da Bologna - adesso è esposto al museo di paleontologia di Bologna.
Nel punto esatto dove il fossile è stato trovato, è stata realizzata - dai ragazzi dell'Accademia di Belle Arti di Bologna - una scultura realizzata in scala 1:1 lunga ben nove metri, raffigurante la balenottera come doveva essere prima di "fossilizzarsi".

La scultura è realizzata in qualche materiale di un bianco abbacinate, ricollegandosi così alla famosa leggenda della balena bianca, di cui Melville ci ha parlato in "Moby Dick".
Intorno, il soave paesaggio dei colli bolognesi.
Per arrivarci c'è da affrontare uno sterrato, ma poco impegnativo, percorribile con qualsiasi tipo di autovettura.
O a piedi, così poi vi fate una bella mangiata, tanto da queste parti si casca sempre bene!

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domenica 16 ottobre 2016

IL MUSEO DELLA CERAMICA A MONTELUPO FIORENTINO

Quando si parla di città della ceramica, tra Firenze e provincia, si parla di Montelupo Fiorentino.
La cittadina è veramente graziosa, ma adesso non vogliamo parlarvi tanto di Montelupo, quanto del suo Museo della Ceramica.
Un posto che merita davvero vedere, anche per la strana storia che c'è a monte della sua creazione.
Negli anni '70 del secolo scorso, durante dei banalissimi lavori di ripavimentazione di una strada nella sua parte alta e più antica, fu trovato quello che fu denominato "il pozzo dei lavatoi".
Si tratta di una struttura molto antica, nata quasi certamente nel XIII secolo e adiacente al castello, e che serviva da riserva idrica per il castello stesso.
Tramite questo pozzo, scavato da un antico fiume di origine preistorica, si attingeva acqua a grande profondità, oltre 30 metri.
A metà del '300 avvenne un crollo della parete di pietra, posta a protezione del pozzo stesso, e si creò un sedimento di pietre che impedirono - di fatto - l'utilizzo del pozzo per la sua funzione, che era quella di attingere acqua.
Rimasto inutilizzato sino a metà del '400, il pozzo fu utilizzato dalle manifatture di ceramica, spina dorsale dell'economia della cittadina, per smaltire gli scarti di lavorazione: quindi i cocci di quello che rompeva e tutto ciò che non soddisfaceva gli ordinativi della committenza. In definitiva, tutto quello che era venuto male, e che non sapevano dove buttare.
In secoli di utilizzo, in questo pozzo si è trovato tanto materiale, e di tanta qualità, fa farne un museo intero!
E che museo! Due piani di notevoli dimensioni, tante stanze ognuna con la sua storia, partendo dalle origini e finendo nella quasi modernità, quando l'industria della ceramica ha perso gran parte della sua importanza - purtroppo - per la città di Montelupo.
Il percorso da seguire  guida di sala in sala, ognuna tematica, dove ci sono audiovisivi molto simpatici, interpretati da attori in costumi d'epoca, molte chiare spiegazioni, e tante, tante ceramiche da ammirare.
Quello che colpisce è che quello che vediamo sono tutti scarti!
Se quelli erano gli scarti, non osiamo pensare a quello che potevano essere i pezzi venuti bene.
a questo proposito, il pezzo più bello è questo bacile, risalente al 1509, e realizzato in "rosso di Montelupo" un colore unico al mondo, e che costituisce tutt'ora un mistero per la sua composizione chimica.
Dovrebbe trattarsi di un ossido di manganese ricco di arsenico, importato dall'Anatolia; infatti erano fiorenti i rapporti commerciali tra Montelupo e la città turca di Iznik (l'antica Nicea).
quel che è certo è che dopo di allora questo colore non è stato più prodotto, e che con il tempo il segreto della sua composizione è andato perduto.

domenica 2 ottobre 2016

L'ANTICA FERROVIA SANT'ELLERO - SALTINO

Rimettendo in ordine certe vecchie carte, ci è capitato per caso in mano una cartolina pubblicitaria di un ristorante, che ricordava la vecchia ferrovia a cremagliera che collegava San'Ellero  - a metà strada tra Reggello  e Pelago - al Saltino, poco prima di Vallombrosa.


Al Saltino, badate bene, e non a Vallombrosa: perchè non si poteva disturbare la quiete dei villeggianti, nè tantomeno quella dei monaci dell'abbazia... pensate alla delicatezza di questo pensiero!.
Naturalmente, abbiamo colto questa ispirazione per fare un giretto - e, si spera, per farlo fare anche a voi.
Questa ferrovia fu voluta da un personaggio straordinario, e purtroppo dimenticato: l'ingegner Giuseppe Telfener.
Nonostante il nome, era nativo di Foggia, anche se di origini austriache.
Era un grande costruttore: realizzò in Argentina la ferrovia Tucuman-Cordoba, che con i suoi 564 km è stata per molti anni la più lunga del continente.
Per i suoi meriti imprenditoriali fu creato Conte da Vittorio Emanuele II nel 1877.
In seguito volle collegare New York a Città del Messico, ma l'impresa non gli riuscì, e ne subì anche un notevole danno economico.
Nonostante questo, alla sua morte avvenuta nel 1898, a soli 62 anni, era considerato l'uomo più ricco d'Italia.
Anche la storia della ferrovia Sant'Ellero - Saltino non fu fonte di lauti guadagni.
Al suo ritorno in Italia dagli Stati Uniti, trascorse un periodo di vacanza a Vallobrosa, che a quei tempi ospitava anche l' importante "Istituto Forestale", che richiamava studiosi da tutto il mondo.
Vallombrosa era una località di villeggiatura già nota, ma era difficile da raggiungere. L'inventivo ingegnere non si perse d'animo, e progettò un ferrovia a cremagliera che permettesse ai villeggianti di raggiungere quel luogo di sogno.
Le ferrovie a cremagliera esistevano già, era un tipo di trazione ferroviaria che permetteva di superare pendenze molto elevate, tramite un sistema di ruote dentate che aiutano motrice e carrozze a superare i punti più critici del percorso. Quello da lui progettato era studiato appositamente per questo percorso, tanto che alcuni non lo riconoscono come "ferrovia a cremagliera".
Per maggior sicurezza, siccome le pendenze raggiungevano in alcuni punti il 22%, la motrice era collocata in fondo al convoglio.
Il progetto era pronto nel 1891, e fu approvato in poche settimane: la realizzazione dei poco meno di otto chilometri di ferrovia e di tutte le infrastrutture richiese - udite, udite - solo 4 mesi!! perchè il lavori iniziarono il 23 maggio 1892 e furono terminati il 20 settembre dello stesso anno. Il 23 settembre si procedette al viaggio inaugurale. Incredibile.
Telfener costruì anche alberghi e chalet, contribuendo a fare di Vallombrosa la capitale del turismo montano dell'epoca.
Infatti con la piccola ferrovia, si arrivava al Saltino in poco meno di un'ora di agevole e panoramicissimo viaggio.
Purtroppo nel 1913 l'istituto Forestale fu trasferito a Firenze, perdendo così una parte assai importante di pubblico.
Poi ci fu la prima guerra mondiale, durante la quale le villeggiature diminuirono sensibilmente.
Dopo il 1918, si ebbe un interesse politico a spingere il turismo montano verso le zone dell'Alto Adige, ritornate da poco ad essere italiane, anche la costruzione della strada rotabile - l'attuale SP 88 - e con l'inizio nel 1920 del trasporto su gomma,  contribuirono a diradare sempre di più il traffico verso questa località montana, tanto che nel 1924, la ferrovia fu dismessa definitivamente, ed il materiale rotabile smantellato.
Adesso che cosa è rimasto di questa ferrovia?
La stazione dei Sant'Ellero, sulla SS69 Aretina, che fornisce ancora il suo servizio sulla linea Firenze-Roma.

E' ancora visibile nel suo contesto la stazioncina di Filiberti

La stazione finale del Saltino invece è diventata casa di abitazione privata, ed è completamente irriconoscibile.

Noi l'abbiamo trovata perchè tutti i testi che abbiamo consultato riportano il suo nome attuale "Villa Rognetta" ed è un nome che non si dimentica!
Sotto la villa c'è ancora quello che potrebbe benissimo essere un muro di contenimento ferroviario.
Volendo, con un po' di inventiva e parecchio fiato - sono 845 metri di dislivello... - ci sono ancora dei tratti, inglobati in un sentiero montano, che è possibile percorrere a piedi. 

Ringraziamo il Blog Lettere Meridiane di Geppe Inserra per le notizie sul Conte Giuseppe Telfener



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domenica 25 settembre 2016

IL PONTE ALL'INDIANO, L'INDIANO E LE CASCINE

C'è un posto, a Firenze, dove convergono tre storie.
Certo, a Firenze, di posti dove convergono tre, cinque o dieci storie diverse ce ne sono parecchi. 
Tra i tanti, noi abbiamo scelto questo: il punto dove il torrente Mugnone confluisce nel fiume Arno.
Su questo sperone triangolare, che sembra la prora di una nave - e certamente con il Mugnone pieno d'acqua l'impressione è davvero quella - sorge un monumento, dedicato al principe indiano Rajaram Chuttraputti di Kolampur.
Tutti i fiorentini - e la maggioranza dei toscani - sa che esiste questo monumento.

Ma il perchè?
Questo giovane principe- aveva solo 21 anni - stava rientrando dall'Inghilterra, dove si era recato per motivi di studio; una cosa normale per un alto personaggio indiano. Lì aveva avuto l'onore di conoscere personalmente la regina Vittoria. Era il 1870.
Forse era solo di passaggio, o forse stava facendo il Grand Tour, come si conveniva ad un giovane notabile di educazione anglosassone.
Fatto sta che, fermatosi a Firenze alla fine di Novembre del 1870, fu colpito da un grave malore e morì il 30 di quello stesso mese.
Secondo l'usanza indu', la sua salma fu arsa alla confluenza di due fiumi: appunto l'Arno ed il Mugnone, e le sue ceneri sparse sul luogo.
Erano usanze funebri stranissime in un paese come l'Italia, dove la religione cattolica proibiva la cremazione, e destarono grande eco in tutta la città. Furono molti i fiorentini che vollero assistere alla cerimonia. Immediatamente, il luogo fu detto: l'Indiano. Pochi mesi dopo, lo scultore Carlo Francesco Fuller scolpì un busto del principe, e lo collocò sotto un baldacchino.
Da allora è lì, a perpetuare il nome di questa zona.
Davanti al monumento - non si può non vederlo - c'è il Ponte che unisce i quartieri di Peretola e dell'Isolotto, e che si chiama proprio "Ponte all'Indiano".
Questo ponte, che ognuno che viva in zona ha percorso cento volte, molto spesso chiedendosi che ci stanno a fare gli autovelox tarati a 60 all'ora, se sul ponte non si riesce mai a superare i 40, per via delle code bibliche che ci sono, presenta delle particolarità non da poco.

Prima di tutto è un ponte "strallato", vale a dire che i cavi di acciaio che lo sostengono (gli stralli, appunto) sono ancorati sul terreno, anzichè collegati ad un cavo portante che ha la forma di una parabola - come il Golden Gate di Los Angeles, per capirsi, o come il Ponte di Brooklin - ed è stato costruito tra il 1972 ed il 1978.
A noi il nome è parso stranissimo, ma erano ponti strallati, tutti i ponti levatoi dei castelli del medioevo, tanto per dire, e quindi è una tecnologia molto antica, che si sta imponendo per i ponti sospesi con luci molto grandi, oltre i mille metri. 
Eppure questo metodo è rimasto congelato per un secolo e mezzo, dopo che due ponti di questo tipo crollarono miseramente all'inizio del XIX secolo.
A quanto pare, il Ponte all'Indiano è uno dei più lunghi al mondo, ed è unico nella sua tipologia costruttiva, perchè sotto ha una passerella ciclopedonale, che naturalmente ci siamo affrettati a percorrere.
Bene: a parte che non porta da nessuna parte (o perlomeno noi non abbiamo identificato destinazioni degne di nota), percorrerlo non è la cosa più gradevole del mondo.

Prima di tutto è molto basso, e questo amplifica la sensazione che le auto che scorrono sopra, ti stiano passando sulla testa - cosa in realtà, assolutamente vera - e poi si muove tantissimo... roba da mal di mare. 
Se torniamo al monumento dell'Indiano, sappiamo di trovarci all'interno del parco delle Cascine, 160 ettari del più grande parco pubblico di Firenze, creato come azienda agricola da Cosimo I de' Medici nel 1563.
Quando il Granducato passò ai Lorena, questi lo destinarono a luogo di svago, aperto in particolari occasioni a tutta la popolazione, anche se era essenzialmente un luogo dove galoppare con il cavalli, e passeggiare con le carrozze.
In quel periodo  fu costruita la Palazzina Reale, attuale sede della facoltà di Agraria, l'anfiteatro, la piramide, che aveva funzione di ghiacciaia, le fagianiere, due tempietti neoclassici che col tempo hanno cambiato nome in Pavoniere, ed alle quali si è aggiunta la conosciutissima piscina.
Fu acquisito dal Comune di Firenze nel 1869, e da allora sempre aperto allo svago di tutti i fiorentini.
Nel prato del Quercione, si sono svolte le prime partite di calcio giocate dalle squadre di allora, ma dal 1917 è stato proibito a tutti i club fiorentini, di giocare partite in quello spazio.
Contiene anche la Scuola di Guerra Aerea e ben due ippodromi: quello del Visarno, in posizione centrale, accanto al Piazzale delle Cascine dove sorge la facoltà di Agraria, ancora attivo e frequentato.
L'altro è l'ippodromo delle Mulina, alla fine del viale dell'Aereonautica, collocato in una posizione "infelice" perchè difficilmente raggiungibile, visto che non ci si può arrivare in auto (che fra l'altro non si saprebbe dove parcheggiare).
Questo suo essere un po' fuori dal centro delle Cascine, oltre all'innegabile crisi del mondo dell'ippica, ha determinato una sua inarrestabile parabola discendente, tanto che adesso ci si va solo per rendersi conto del terribile degrado in cui versa tutto l'impianto.
Un panorama davvero triste.
Peccato, perchè poi il resto parco è splendido, un Central Park italiano, praticamente nel centro della città, come quello di New York e che tanto piace ai turisti che visitano la Grande Mela.
Ci sarebbe da chiedere a questi signori, che vanno tanto magnificando il fatto che in una città come New York esiste un parco urbano di questa grandezza e così ben frequentato, se sono mai stati alle Cascine in una domenica di maggio!

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domenica 18 settembre 2016

IL SILOS FUTURISTA DI AREZZO

Sappiamo che siete rimasti sorpresi.
Di solito esordiamo con un "cappello" in cui si introduce l'argomento, e solo in seguito di inseriscono le foto.
Invece questa volta abbiamo inserito per prima cosa una foto, anzi, un disegno di Antonio Sant'Elia.

Questo architetto, nato a Como nel 1888, ha esercitato una influenza veramente notevole sull'architettura delle nostre città, nonostante sia morto durante la prima Guerra Mondiale, nel 1916 a soli 28 anni.
In realtà dei suoi numerosi progetti, non è stato realizzato quasi niente, vuoi per il momento storico, vuoi per la sua prematura morte.
Ma Antonio Sant'Elia è stato uno dei firmatari del "Manifesto del Movimento Futurista" nel 1909, ed è conosciuto come l'unico architetto futurista.
Sua è la concezione della Città Futurista, quella a cui si è ispirato il regista Fritz Lang nel suo capolavoro "Metropolis". (a proposito, se non l'avete mai visto vi consigliamo di guardarlo perchè è bellissimo).
Riferimenti alla  sua concezione di Città Futurista, e all'architettura futurista in genere,si può trovare nell'opera del famoso architetto americano Richard Fuller.
E chiari riferimenti a Sant'Elia, si trovano nell'architettura razionalista che ha prodotto tanti edifici in tutte le città d'Italia durante il ventennio fascista.
L'architettura prodotta in quegli anni può piacere, oppure no; però ha prodotto una quantità incredibile di edifici, che sono così entrati nel contesto delle nostre città da non essere nemmeno più notati.
In genere si tratta di edifici di utilità - ma non mancano le case di abitazione, e se ne trovano moltissime, specie nelle località marine - proprio come quello di cui vogliamo parlarvi.
Adesso confrontate questa foto con il disegno che vi abbiamo proposto in apertura, e diteci se non gli somiglia tantissimo.

Si tratta di un semplicissimo silo per le granaglie - si legge ancora bene la scritta "consorzio agrario provinciale di Arezzo", e sotto si vede che è stato rimosso qualcosa (che poteva benissimo essere un fascio littorio).

E' situato vicino ad una stazione secondaria, che ha tutta l'aria di una stazione merci (Arezzo-Pescaiola) e questo giustificherebbe la sua collocazione.
Al momento della sua costruzione doveva essere in aperta campagna, ma la città gli è cresciuta intorno, e adesso di trova in un anonimo quartiere residenziale.
Progettato dall'ingegnere aretino  Ubaldo Cassi, e realizzato tra il 1937 ed il 1938, la sua particolarità consiste nel fatto  che i depositi delle granaglie erano in celle verticali, per una migliore utilizzazione degli spazi.
Si tratta di un edificio imponente, che dà tutt'ora un'impressione di solidità straordinaria, e contemporaneamente di grande leggerezza e di slancio verso l'alto. 
Nonostante non svolga più la sua funzione da ormai molti anni, non sembra in condizioni fatiscenti.
Fortunatamente, dopo l'ipotesi che riguardavano un suo eventuale abbattimento, pare che prevalga la volontà di recuperarlo, togliendosi il paraocchi dell'ideologia e manifestando invece il desiderio di recuperare una
delle  più belle strutture produttive degli anni trenta, ancora esistenti in Italia.
Se andate ad Arezzo - una città deliziosa che merita una visita - andate a vederlo.

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domenica 11 settembre 2016

LA FORTEZZA SANTA BARBARA A PISTOIA

Per la serie"gite fuori porta" eccone una veramente a portata di mano.
Si trova a Pistoia che, oltre ad essere una cittadina deliziosa è anche capitale della cultura per il 2017, e quindi merita comunque una visita.
Cose da vedere che ne sono tantissime, ma nello specifico vogliamo farvi vedere un autentico gioiello: la fortezza di Santa Barbara.

Si tratta di una bellissima architettura militare cinquecentesca, costruita dal 1539 per volere di Cosimo I° De' Medici, e sorta sui resti di un pre-esistente fortilizio medioevale.

Questa precedente fortezza, voluta dalla repubblica Fiorentina nel 1331,  aveva fatto una fine miserevole, perchè era stata quasi completamente distrutta dai Pistoiesi nel 1343.
Infatti la fortezza non fu costruita per difendersi da minacce esterne, ma per dimostrare ai pistoiesi che i Medici facevano sul serio, e li tenevano d'occhio!
Cosimo I° ne affidò la costruzione ad una architetto di sua fiducia, Giovanni Battista Belluzzi, detto il Sanmarino - perchè era nativo di quella repubblica - che aveva disegnato per il Granduca anche le fortezze di Firenze, Pisa e San Miniato (oltre a quelle della sua patria) e molti altri lavori per conto dei Medici.
Come tutte le fortezze di questo tipo, qui non c'erano eleganze: erano locali destinati ad i soldati, quindi molto spartani, privi di decorazioni di qualsiasi tipo.
La fortezza, nella sua storia ha sostenuto un solo assedio, portato nel 1643 dai Barberini, famiglia rivale dei Medici: l'assedio andò maluccio, perchè le truppe medicee vinsero sulla potente famiglia nobiliare, che in quegli anni aveva nientemeno che  un suo rappresentate al soglio pontificio, Maffeo Barberini, noto come Urbano VIII.
La fortezza venne disarmata del 1774 dal Granduca Leopoldo.
In seguito fu utilizzata come caserma e carcere militare, oltre che essere utilizzata per il rastrellamento dei partigiani da parte delle truppe tedesche. Qui quattro  giovani pistoiesi furono fucilati dai nazisti nel 1944.
Siccome si trattava di una fortezza destinata alla sorveglianza, il suo punto forte erano i camminamenti, dai quali i soldati di guardia potevano controllare efficacemente quello che succedeva in città.

La cosa bella è che i camminamenti, a differenza delle altre fortezze di questo tipo, sono completamente percorribili anche adesso, e costituiscono il punto forte della visita, perchè si tratta di una passeggiata veramente bella, tranquilla e panoramica.


Facendo  questa passeggiata, si nota ad un certo punto, nel terrapieno che divide la fortezza medioevale da quella rinascimentale, una strana "scultura".

Non è una scultura, ma la mitragliera del Sommergibile Scirè, famoso durante la seconda guerra mondiale per l'impresa di Alessandria, quando trasportò i siluri a lenta corsa (familiarmente detti "maiali"), affondando nel 1941 una paio di corazzate inglesi.
Ah, il comandante del sommergibile, nell'impresa, era un certo Junio Valerio Borghese.
Se il nome vi dice qualcosa, non state a scervellarvi, ve lo diciamo noi: è quello del tentato colpo di stato, nella notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970.
Un tipetto niente male!
A questo punto vi domanderete come mai la mitragliera è finita proprio a Pistoia.
Anche questo ve lo diciamo noi: che ci staremmo a fare senno'?
La bandiera di guerra del sommergibile (che è una bandiera di guerra? è una bandiera nazionale realizzata in materiali pregiati, e custodita con la massima cura dal comandante de reparto in una teca apposita) era stata realizzata a Pistoia, e donata dalla città proprio a quel sommergibile.
Dal relitto fu recuperata negli anni ottanta la mitragliera che dal 1987 è custodita dalla città di Pistoia, all'interno della Fortezza di Santa Barbara.

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domenica 4 settembre 2016

IL MONASTERO BENEDETTINO DI ROSANO

Rosano è un piccolissimo borgo, sulla strada che porta a Pontassieve, ma nel comune di Rignano sull'Arno.
Qui sorge un antichissimo monastero femminile benedettino, che osserva ancora la regola alla lettera.

Come data di fondazione si parla addirittura del 780, anche se le prime notizie scritte risalgono all'XI secolo; ma tutte le notizie scritte risalgono all'XI secolo, semplicemente perchè prima di allora non si tenevano notizie scritte.
Vedendo queste antiche mura, capirete anche voi, come l'abbiamo capito noi, che qui un paio di secoli di differenza non significano proprio niente.

Trattandosi di un monastero di clausura di stretta osservanza, non è permesso visitare il monastero.
Tuttavia, la chiesa abbaziale, che conserva ancora le strutture originarie, ma è stata restaurata nel XVII secolo, è aperta al culto per la Santa Messa e per i Vespri, mentre è chiusa nelle altre ore liturgiche.
Le monache restano dietro la loro grata, ma si sentono le loro voci, che cantano in latino i canti gregoriani.
Questo monastero non risente della crisi vocazionale: al suo interno ci sono circa sessanta monache, tra cui diverse novizie.
Infatti, è noto che la ricerca della spiritualità, oggi privilegia proprio quei monasteri dove la regola è più stretta, dove la clausura è più severa, e dove si privilegia la contemplazione.
in questo monastero c'è una foresteria, che può ospitare sino a venti persone per volta.
Qui si è rifugiato parecchie volte il cardinale Ratzinger prima di diventare Benedetto XVI nel 2005; arrivava il sabato pomeriggio e ripartiva la domenica mattina, dopo la Messa. Ha assistito anche alla professione di fede di alcune novizie.
Il luogo, anche se vicino alla circonvallazione di Pontassieve, è bucolico e discretamente isolato.
C'è solo una bottega di alimentari, con annesso un grazioso ristorante, che vende degli spettacolari dolci fatti in casa.
Si può farsi fare un panino o bere un caffè, e farsi una passeggiata, su per le strade con i muretti a secco, che salgono verso la collina.

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domenica 21 agosto 2016

AMANDOLA E IL LAGO FANTASMA DI SAN RUFFINO

La stazione fantasma, il paese fantasma, ora pure il lago fantasma...
Siete autorizzati a pensare che stiamo diventando noiosi.
Ma non siamo noi a cercare questi luoghi "fantasmatici", sono loro che ci intralciano la strada.
E a noi - che questi posti strani ci piacciono, che dobbiamo fare?! Ne parliamo.
Dunque, durante un fine settimana nelle meravigliose Marche, non ci siamo imbattuti proprio nel lago fantasma?
Quello di San Ruffino è vicino ad uno dei borghi che amiamo di più, con un nome che si fa capire da solo: Amandola, - e si ama, si ama - in provincia di Fermo.
Due parole su questa piccola, incantevole cittadina che sorge sui monti Sibillini.
I "Monti Azzurri" come li chiamava Giacomo Leopardi.
(N.D.R. - tutti i monti sono azzurri, visti da lontano. Anche i Monti della Calvana... però i Sibillini li ha chiamati così Leopardi, e da allora - diciamocelo - un po' se la tirano).
Sorge su tre monti, ed i castelli che vi sorgevano sopra, si confederarono in libero comune nel 1248. 
Da allora quindi non si parla più di Agello, Leone e Marrubbione, ma viste le foreste di mandorli che abbondavano nella zona, la neonata città fu chiamata - e nel dialetto della zona viene chiamata ancora così - La Mannola, cioè la mandorla, poi italianizzata in Amandola, con questo curioso gioco di gerundio passato (se le nostre nozioni di grammatica ci dicono ancora la verità).
La città è situata a sinistra del fiume Tenna.
E qui casca l'asino! Nel senso che il fiume Tenna è quello che forma poi il lago di San Ruffino.

Nel 1961 fu creato questo invaso, che serve da riserva d'acqua nel caso vi siano annate particolarmente avare di pioggia.
Tuttavia, con l'inizio dell'autunno, la diga viene aperta: le acque defluiscono verso valle, ed il lago scompare in un batter d'occhio, lasciando una vasta palude che si asciuga abbastanza in fretta, e lascia solo il letto del fiume.

In primavera la diga viene richiusa, ed in estate il lago è bellissimo, con dei colori splendidi ed una vegetazione rigogliosa.
Così l'abbiamo visto noi, in pieno agosto.
Sarebbe bello tornare in inverno per vedere il solo corso del fiume!

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domenica 14 agosto 2016

LA SCARZUOLA

Di solito - chi ci segue lo sa - noi proponiamo il classico itinerario fuori porta.
Siccome siamo di Prato, è evidente che tutto quello che è nei pressi di questa città, per noi è un giretto per passare la domenica.
Qui il viaggio, per dire la verità, è un po' più lungo, perchè vi facciamo spostare sino a Montegabbione, in provincia di Terni, nella bellissima Umbria.
Qui, percorrendo nell'ultimo tratto una non agevolissima strada bianca (ma ci vanno gli autobus Gran Turismo, per cui nessuna paura...certo,  una Ferrari ce la vediamo male!) ci troviamo davanti ad un cancello di legno, dove molte persone sono già in attesa della visita guidata.


La leggenda vuole che qui il Santo di Assisi abbia vissuto per un po' di tempo in una capanna fatta di Scarza, un'erba palustre. Da cui il nome Scarzuola.
Il posto è nel mezzo al nulla nel XXI° secolo, per cui ai tempi di San Francesco doveva essere un luogo estremamente isolato!
Qui, come sempre accadeva in questi frangenti, è stata costruita una edicola sacra, poi una chiesa ed infine un monastero, protetto dai Conti di Marsciano, dove i frati minori hanno vissuto sino alla metà del XVIII° secolo.
Da allora il luogo conobbe un lento decadimento, e quando l'eminente architetto Tomaso Buzzi lo acquistò nel 1957, era in condizioni veramente pessime.
Chi era Tomaso Buzzi?
Era un architetto milanese, contemporaneo del ben più conosciuto Giò Ponti, che ha lavorato e collaborato proprio con il nostro Tomaso Buzzi, che a quei tempi era il più famoso ed illustre architetto italiano.
E questo - proprio queste tre righe - è quello che si trova in rete su di lui.
Se si vuole capire quale personaggio straordinario fosse Tomaso Buzzi, bisogna visitare la Scarzuola, e soprattutto conoscere il suo erede e continuatore Marco Solari, attuale proprietario della tenuta.
Citiamo il blog di Antonio Tombolini, perchè riassume alla perfezione quello che abbiamo provato visitando questo luogo :" Eravamo andati per visitare un giardino. Ne siamo usciti diversi"
Quando siamo entrati nel vasto prato antistante l'antica chiesa, già il colpo d'occhio era splendido: tutta la costruzione era in mattoni di un rosa pallidissimo, che il sole allo zenith schiariva ancora di più.


Sotto il portico, per farci da guida, ci aspettava Marco Solari.
Se dobbiamo riassumere, si tratta di un magnifico giardino, dove sono stati costruiti alcuni "teatri", che il Buzzi si divertiva a far montare e smontare, avvalendosi della leggerezza e della facilità con sui era possibile costruire con il tufo, la pietra tipica del luogo.


Ogni singola pietra, ogni decorazione, ogni mosaico, persino la grandezza delle porte delle torri, persino le vasche con i fiori di ninfea, o il pergolato che gira tutto intorno al giardino...tutto, tutto ha un significato nascosto, una doppia o tripla interpretazione, una valenza simbolica.

E' stato difficile comprendere in meno di due ore - passate fra l'altro sotto il sole di un mezzogiorno di luglio - tutto questo affastellarsi di simboli.
Però nelle nostre menti si è aperto uno spiraglio, aperto a forza con la prosa improbabile di Marco Solari, cicerone e mentore in questo viaggio in noi stessi.
Dopo, con calma, ci siamo chiesti se dicesse delle grandi verità nascondendole sotto un robusto strato di ironia, oppure se ci stese semplicemente prendendo tutti in giro: un'ottantina di persone, tutti venuti dalla città, tutti più o meno omologati, normalizzati, socialmente corretti.
Siamo sicuri che una certa dose di ferocia ci fosse, in tutto quell'affastellare concetti, di un certo snobistico disprezzo verso di noi e le nostre scarpe da ginnastica!
Una cosa però ci si è chiarita in testa: come Tomaso Buzzi, che in quel luogo poteva essere nudo (cioè sè stesso) ognuno di noi dovrebbe avere una sua stanza interiore in cui essere nudo (cioè sè stesso) senza venire a patti con nessuno, seguendo solo i propri desideri e le proprie aspirazioni.
Un luogo dove la società, omologata, normalizzata, socialmente corretta, non possa arrivare.

Quel luogo che, dandoci la possibilità di liberare la propria pazzia, ci permetta poi di rientrare nel mondo di ogni giorno, svolgendo il ruolo che ci si aspetta da noi, certo, ma felici; sapendo che possiamo raggiunger la libertà ogni qualvolta lo desideriamo, rifugiandosi appunto in esso.
In questo il nostro architetto Tomaso Buzzi non è stato tanto bravo: forse proprio perchè, a differenza di noi comuni mortali che possiamo trovare noi stessi solo nel segreto della nostra mente, lui aveva la possibilità materiale di realizzare le sue utopie in mattoni e cemento.
Quindi la sua pazzia si vedeva, non si poteva nascondere, anche se esercitata in un luogo così remoto come la Scarzuola.
E questo gli è costato l'oblio sul suo nome, tanto più facile in un paese come il nostro, che tanta poca memoria ha verso la propria storia ed i propri personaggi di spicco. Il grande Tomaso Buzzi è stato dimenticato, e di ogni suo progetto si è preso il merito il contemporaneo Giò Ponti. 
(che forse  ha solo  avuto il merito di non mostrare la sua pazzia)
E abbiamo ricordato anche una delle prime frasi che Marco Solari ha detto: che nel medioevo gli unici che potevano permettersi di dire la verità erano i giullari, perchè la nascondevano sotto "i frizzi e i lazzi" che il loro mestiere richiedeva.
E allora abbiamo capito che non ci prendeva in giro...

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