giovedì 10 luglio 2014

LA BRIGLIA ED IL LANIFICIO FORTI

Ancora una città fabbrica e ancora la Valdibisenzio.
Ed un Pratese illustre.
Beniamino Forti per dire la verità era nativo di Montelpulciano, ma all'epoca dell'unità d'Italia si trasferì a Prato, attirato dall'espansione economica della zona. Iniziò come merciaio, poi - come succedeva all'epoca, ma purtroppo oggi non accade più - da una cosa ne fece un'altra e iniziò la produzione di panni di lana, prima in società con un certo Mercatanti, poi da solo, realizzando tessuti sia per abbigliamento maschile che femminile.
Aprì tra il 1879 ed il 1882  uno stabilimento , sfruttando un edificio pre-esistente, sul quale c'è da fare un discorso più ampio.
Questa zona si chiama La Briglia, ed ha la sua storia nel nome: infatti qui era una delle numerose Briglie, cioè quelle dighe che rallentano il trasporto del materiale di fondo da parte di un fiume, in questo caso il Bisenzio.
A Valle della Briglia esisteva già una cartiera, detta "Cartaia Vecchia" (ed infatti esiste ancora una località che si chiama La Cartaia).
Nel 1735 ne fu aperta un'altra, molto grande per l'epoca, proprio alla Briglia, probabilmente da Clemente Ricci, adattando una precedente costruzione nata come mulino ad acqua, ed era tra le più importanti d'Italia . Nel 1750 ci lavoravano 80 persone. Verso il 1818 sappiamo che si chiamava " Leopodo Gigli e Compagni", e che la carta prodotta doveva essere di ottima qualità.
Poi, nel 1844 ci fu la trasformazione in raffineria di rame. Appare estremamente probabile che i proprietari dello stabilimento, avessero spostato la lavorazione da Montecatini Val di Cecina perchè erano nei guai con la gente del luogo, specie gli agricoltori, perchè i residui della lavorazione inquinavano pesantemente acqua e aria. La Val di Bisenzio sembrava molto lontana dalla Val di Cecina, ma già durante i lavori di trasformazione da Cartiera a Raffineria, le popolazioni circostanti cominciarono a protestare, dando origine ad una clamorosa protesta a carattere ecologico. Oltre a danneggiare campi, allevamenti, inquinare acqua e aria, la fitta nebbia solforosa che veniva a crearsi durante la lavorazione, impediva persino il transito sulla Strada Statale che portava a Bologna, asse viario di vitale importanza per la Vallata e per Prato.
Forse fu proprio questa la ragione per cui la Raffineria, la cui proprietà era a maggioranza Inglese,  ebbe vita breve e travagliata: le lavorazioni cominciarono ad essere dismesse verso l'inizio degli anni '60.
Quindi una zona vocata industrialmente: mulino, cartiera, raffineria di rame ed infine lanificio.
Beniamino Forti era uno che credeva nell'innovazione, tanto è vero che fu tra i promotori di quella Scuola Professionale, diventato poi il celeberrimo Istituto Tecnico Industriale "Tullio Buzzi", insieme ad un altro insigne pratese, quel Giovan Battista Mazzoni del quale abbiamo visto la statua in Piazza del Duomo e che introdusse l'uso dei macchinari tessili a Prato ( dopo essere stato mandato a studiare all'estero con una borsa di studio del buon Granduca Ferdinando, va detto).
Ma torniamo a Beniamino Forti, che insediò la sua fabbrica seguendo le linee guida dell'epoca:  forse paternalistiche ma di certo assai efficaci. Quindi intorno alla fabbrica ampliò e fece costruire alloggi per gli operai, una chiesa, botteghe e negozi, un ambulatorio medico, una centrale elettrica,un asilo e una scuola per i figli degli operai,  nonchè un teatro ed una università popolare.
C'erano alloggi anche per i dirigenti e per gli impiegati, sotto l'imponente torre dell'orologio. La  breve strada con cui si raggiungevano le abitazione degli impiegati, era stata soprannominata "via de Lei", appunto per il riguardo che era conveniente avere negli incontri con i dipendenti di grado superiore.
Le altre strade della frazione hanno nomi evocativi: via del Carbonizzo, via degli Annodini, tutti nomi legati alle attività produttive.
Nel momento di massima espansione, il lanificio occupava ben 1500 addetti.
I suoi successori furono  tra i fondatori dell'Unione Industriale di Prato, ed il figlio Alfredo, fu il primo Cavaliere del Lavoro della città di Prato.
Purtroppo, essendo di religione ebraica, furono privati dei loro beni a partire dalla promulgazione delle leggi razziali nel 1938.
A seguire, la Seconda Guerra Mondiale non risparmiò certo la piccola città-fabbrica: bombardamenti, dispersione della forza-lavoro a causa della guerra, danni alle infrastrutture.
Negli anni '50 e '60, i capannoni furono utilizzati per varie attività produttive, mentre la vita de La Briglia continuava come frazione del comune di Vaiano.
Dalla fine degli anni '70, con l'inizio della de-industrializzazione, i capannoni furono via via abbandonati, sino ad arrivare al pericoloso stato di degrado attuale,

 dove abbandono e sporcizia non riescono ancora a nascondere l'archeologia industriale dell'antico insediamento produttivo, in special modo la caratteristica ciminiera quadrangolare

- unica per dimensioni e tipologia nell'intero panorama pratese - e la torre dell'orologio che scandiva la vita della fabbrica e degli abitanti delle case.

L'edificio adibito ad uffici è stato riadattato a case di abitazione.

La chiesa, dalla severa architettura neogotica con volte a crociera, ha un caratteristico campanile moderno, la cui forma si individua a prima vista da qualsiasi punto della Val di Bisenzio.
Questa chiesa, intitolata a San Miniato, ha una storia particolare: costruita dalla società mista anglo-italiana durante il disgraziato periodo della Raffineria di rame, è proprio al centro del complesso industriale. Siccome era diventata la chiesa parrocchiale della Briglia, per la sua particolare posizione  fu riscattata dai Forti e adibita a magazzino durante il periodo del Lanificio. Fu costruita un'altra chiesa inaugurata nel 1931, che però fu gravemente danneggiata da una frana prima e dalla seconda guerra mondiale poi, tanto che dovette essere demolita nel 1953. Nel 1954 la Curia acquistò il vecchio oratorio del 1836, dalla proprietà che vendeva a lotti gli edifici, e restaurò la chiesetta, contando quasi esclusivamente sui proventi della vendita del metallo che costituiva il soppalco che divideva in due la navata.

In questa ricerca siamo stati aiutati da un testo: "La Fabbrica Forti in Val di Bisenzio" di Giulia Benelli.

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