domenica 18 febbraio 2018

L'ANFITEATRO ROMANO DI FIRENZE

Che i romani a suo tempo avessero costruito Firenze a Fiesole, era cosa nota.
Il pantano che era il fondovalle, con le sue febbri malariche, non era nè agevole nè benevolo, mentre le colline erano salubri e ben difendibili.
Vero è anche che quando si parla di Fiesole romana si parla dell'epoca repubblicana, mentre quando si parla della Florentia romana si parla di epoca imperiale, quindi secoli dopo, verso il II° secolo d.C., quando il fondovalle era stato bonificato ed era ormai abbastanza salubre e vivibile anche per le raffinate abitudini romane.
Come in ogni città romana che si rispetti, anche a Florentia erano state costruite terme, teatri ed un imponente anfiteatro, uno dei più grandi della penisola, secondo solo al Colosseo di Roma, all'Arena di Verona e a quello di Pompei.
La scelta della posizione era ai limiti dell'area urbana, che venne raggiunta solo nell'epoca in cui era al potere l'imperatore Adriano.
L'edificio doveva essere alto circa 19 metri, e di forma ellittica, come tutti gli anfiteatri, ma mancano i dati precisi su dove fossero posizionati esattamente gli ingressi principali, e come fossero distribuiti i posti sui due anelli delle gradinate.
Anche se, come tutte le costruzioni romane dopo la caduta dell'impero, fu certamente usato come cava di materiale da costruzione, si può notare che le sovrastrutture medioevali della Piazza Peruzzi, via Bentaccordi e via Torta,

seguono alla perfezione la curvatura ellittica del vecchio anfiteatro, anche se la struttura non è così perfettamente visibile come è in quello di Lucca, che addirittura al suo interno ha ancora una piazza, e che all'esterno ha ancora dei rimasugli di vecchie mura!

Ma se guardiamo attentamente il perimetro delle case lungo le mura, troveremo ancora qualche traccia dell'antico monumento; infatti, entrando nella piazza dei Peruzzi, e posizionandosi davanti al muro curvo, notiamo una fila di archi nel perimetro esterno dell'anfiteatro.
Anche degli ignoranti di architettura come noi, notano che non si tratta di archi medioevali, ma di archi a tutto sesto, tipici dell'architettura romana.

Una curiosità nella curiosità: gli archi non risultano oggi nella loro altezza originaria perchè il livello stradale della piazza Peruzzi è più alto di due metri rispetto al livello del terreno in epoca romana!
Anche altri particolari dell'anfiteatro sono stati utilizzati in altro modo: per esempio, la rete di corridoi sotterranei sotto la costruzione, sono stati utilizzati come carceri già in età longobarda, e poi in età comunale.
Una notizia che non molti sanno, è che tra la piazza Peruzzi, e il fiume Arno, sorgeva la Scuola dei Gladiatori, dove i combattenti si allenavano e dove vivevano (quelli che riuscivano a farlo...), e che sicuramente c'era anche il passaggio sotterraneo che, come nel Colosseo a Roma, portava i Gladiatori dalla Ludus Magnus (cioè la Caserma di cui sopra) sin dentro l'anfiteatro.




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(notizie fornite dal testo "Antiche curiosità fiorentine" di Enio Pecchioni)

domenica 11 febbraio 2018

L'ISOLA DELLE API INDUSTRIOSE

Ci sono delle cose che nel tempo hanno perso completamente la loro connotazione originale, e adesso hanno un aspetto completamente  diverso da quello che a suo tempo può aver addirittura ispirato uno scrittore come Carlo Lorenzini, detto Collodi.
In un episodio di Pinocchio, Collodi fa riferimento ad un'isola delle Api industriose, un paese dove tutti avevano un'occupazione e non esisteva nessuno che stesse in ozio.
Ecco, quest'isola si trova nell'Osmannoro, lungo la via Lucchese, a cento metri dalla Motorizzazione Civile di Firenze.
Stupìti... vi vediamo stupìti (per citare un verso di una canzone di Guccini)
Procediamo con ordine.
Chi conosce la zona sa che di fronte ai capannoni della Motorizzazione, proprio sulla sinistra della via Lucchese (per chi va verso Firenze) c'è un piccolo complesso di - chiamiamoli così - piccoli capannoni con un ponticino per accedervi ed un campanile a vela, che ricordava i villaggi messicani nei vecchi film western.

Sino a metà ottocento, l'Osmannoro era una palude, e quando nella brutta stagione pioveva (più di adesso), la zona da paludosa che era, diventava tutta un lago. 
Ci si spostava con i tipici barchini da palude, oppure con delle botti tagliate a metà!
L'unica striscia di terra che rimaneva emersa era proprio quella dove sorgeva questo piccolo complesso.
Non sono piccoli capannoni; chi ha voglia di parcheggiare la macchina e di andare a dare un'occhiata, scoprirà quel che è rimasto di un antico ospedale per i pellegrini, con tanto di chiesetta (dove adesso c'è un'officina) con il famoso campanile a vela, un rimasuglio di chiostro e un cortile.

Lo Spedale risale almeno al 1250, e la chiesetta era dedicata alla Santa Croce, e infatti di chiamava proprio Santa Croce all'Ormannoro, o Smannoro, come si chiamava il fosso su cui sorgeva.
Il nome derivava dagli antichi proprietari della zona, gli Ormanni, anche se lo Spedale era sotto il patronato della famiglia degli Spini, di cui rimane un malandato stemma.

Fu costruito essenzialmente per assistere i malati di malaria, che certamente in quella zona ed a quel tempo non dovevano mancare, e comunque come lazzeretto per tutte le malattie che dovevano stare lontane dai centri abitati.
Ma come tutti i luoghi pianeggianti e paludosi, erano anche infestati di briganti, per cui doveva servire anche come ricetto per i viandanti.
In quello che a quei tempi era un vero deserto, si ritirarono in eremitaggio dei monaci Agostiniani, che con il tempo trasformarono l'ospedale in un convento.
Fu allora che Carlo Lorenzini ci andò, proprio quando la piccola altura emergeva dall'acqua come un'isola, e fu lì che ebbe l'idea dell'isola delle api industriose
Poi a verso la metà del XIX secolo la zona fu bonificata, i frati se ne andarono e la chiesetta fu sconsacrata.
Nel fienile c'è stato un'autosalone e adesso c'è un ristorante.
Sul portone del convento avevano messo una riproduzione di un razzo - chi era ragazzo negli anni settanta del secolo scorso se lo ricorda - ed intorno al vecchio convento sono nate autostrade, capannoni (veri, stavolta) e inceneritori (link).
Insomma, manca l'acqua ma lo squallore è lo stesso.

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domenica 4 febbraio 2018

L'INCENERITORE DI SAN DONNINO

Quella sagoma inquietante che si vede passando dall'autostrada del Sole, è una specie di antitesi della chiesa dell'autostrada, un condensato del male, in pratica.

Le sue due ciminiere grigie sono un monito, un ricordo, una ferita mai guarita.
Fa venire in mente l'ICMESA, la diossina, Seveso.
E certamente quello che usciva dalle due ciminiere grigie sino al luglio del 1986 era una  sostanza molto simile da quella che uscì dalle ciminiere dell'ICMESA di Seveso il 10 luglio del 1976.
La nube di Seveso era TCDD, la più pericolosa diossina conosciuta, ed uscì tutta insieme per un guasto al reattore; i venti favorirono la propagazione della nube tossica in una vasta area densamente popolata tra Seveso, Meda, Cesano Maderno e Desio.
La zona contaminata fu quindi molto vasta, e la nube provocò danni enormi alla popolazione, all'agricoltura ed agli animali, che morivano  uno dopo l'altro, (questa è una cosa di cui non si parla mai, ma gli animali, proprio per le ridotte dimensioni, non si ammalano: muoiono).
Tuttavia le operazioni di bonifica iniziarono quasi immediatamente e l'azienda colpevole del disastro fu chiusa, il reattore e la vasca furono racchiusi in un sarcofago di cemento armato, e altre vasche ignifughe e monitorate - per evitare qualsiasi perdita - raccolgono tutto il terreno di superficie di tutta la zona denominata A, dell'estensione di circa 108 ettari;  e sopra il quale è stato realizzato un parco naturale denominato Bosco delle Querce.
Quella di San Donnino era "solo" PCDO, una diossina meno pericolosa, ma combinata con PCDF (policrodibenzofurani, per chi sa cosa vuol dire), ma rilevata nel terreno in concentrazioni 4 volte superiori a tutti i limiti massimi consentiti; ed emessa per un periodo molto lungo, dal 1973 - anno della sua inaugurazione - al 1986,  anno in cui l'USL di Firenze fece questa bella scoperta e l'inceneritore fu chiuso in tutta fretta.
Anche a San Donnino si è fatto un parco, il "Chico Mendez" (link) riqualificando una cava di sabbia presente in zona, ed altri interventi urbanistici sono stati pensati, e realizzati,  dalle varie amministrazioni comunali che si sono succedute.
Tuttavia, la differenza fondamentale con Seveso, è che qui il territorio non è mai stato bonificato, nè si è mai provveduto a fare un serio censimento delle persone che sono state colpite dai vari tipi di tumori, e che seri  studi hanno invece dimostrato essere notevolmente aumentati.
Anche perchè, questo avrebbe significato dover studiare poi il modo di risarcire le popolazioni colpite da questo disastro.
Da allora questo grigio monumento di cemento continua a troneggiare vicino all'A1,  e non è mai trovato il modo di riutilizzarlo in nessun modo.
si utilizza il piazzale come isola ecologica, per permettere ai cittadini di portare allo smaltimento ciò che in casa non serve più o ingombra, ma nel 2016, per cause del tutto accidentali, divampò un incendio durante la macinatura dei rifiuti, che provocò un'altissima colonna di fumo nero.

Grande fu la paura della popolazione, tant'è che quella che allora era la proposta di riutilizzare il vecchio inceneritore come termovalorizzatore controllato, capace di produrre energia elettrica per il fabbisogno di circa 40.000 famiglie... decadde all'istante.
Come a dire, che quando si è stati morsi da un serpente, anche una corda fa paura!

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