domenica 13 maggio 2018

BORGO SAN LORENZO: IL MUSEO CHINI A VILLA PECORI-GIRALDI

Di Borgo San Lorenzo (e del Mugello) abbiamo già parlato diverse volte.
Questa volta, vogliamo portarvi a visitare un piccolo, incantevole museo in una splendida dimora storica, all'interno di un parco fresco ed ombroso.
La dimora storica è Villa Pecori-Giraldi.

Si tratta di una costruzione dall'aspetto rinascimentale, che ricorda molto da vicino  (ma più in piccolo) la villa medicea di Cafaggiolo.
Infatti i Medici, lo sanno tutti, erano mugellani di origine...
Era lì da secoli, di proprietà dell'antica famiglia dei Giraldi. Poi nel 1748 venne in possesso del Conte Antonio Pecori, che aggiunse al proprio cognome, anche quello dei Giraldi.
E quando si decise di dar vita ad un museo che esponesse le opere più belle della Manifattura di ceramiche e vetrerie Chini, fu obbligo pensare a questa bella vitta, che il comune di Borgo San Lorenzo aveva fatto sua per donazione nel 1978, perchè i Chini l'avevano decorata negli anni, già a partire dal 1854, anche se non come ceramisti ma come pittori e decoratori.
(Quindi, oltre ai manufatti in esposizione, ci sono le decorazioni proprie della villa, che integrano un percorso quantomeno affascinante)
La Manifattura "L'Arte della Ceramica" nacque infatti nel 1896, quando i conti Ginori vendettero l'antica Manifattura di Doccia all'industriale milanese Augusto Richard.
Non si può rendere a parole il senso di tradimento che questa vendita suscitò nella popolazione a quei tempi: a tutti i livelli, il popolo si sentì tradito, e non solo chi lavorava all'interno della manifattura.
Dal più umile barrocciaio all'artista più illustre, fu grande lo scandalo per questa cessione, per aver "ceduto per denaro" un pezzo di storia del nostro paese.
Galileo Chini, che a quel tempo era un giovane di belle speranze, insieme ad altri tre giovani artisti fiorentini fonda appunto la "Manifattura Arte della Ceramica", e se non nominiamo gli altri è solo perchè alla fine era il Chini, il direttore artistico di tutta l'opera, quindi la persona che più ci interessa.
Fu sua l'intuizione di non dedicarsi alla riproduzione di ceramiche antiche, per le quali esistevano già ottime manifatture in zona, ma di dedicarsi all' "Arte nuova"
come veniva chiamata allora, quella che noi in Italia conosciamo come Liberty, ma che a livello ceramico esprime il proprio apice proprio in Francia come "Art Noveau".
Fu una bella idea, perchè i Chini ( e i loro soci) cominciarono una produzione che in Italia ancora non esisteva, e che si fece apprezzare in tutte le Grandi Esposizioni Universali, che si tenevano allora, vere grandi vetrine dell'innovazione e dell'inventiva dell'epoca.

Adesso queste grandi esposizioni ci fanno un po' sorridere. Di tutto un po', affastellato senza criterio apparente, bastava che fosse nuovo. Eppure ha funzionato no? eccoci qua, figli, anzi, nipoti di quell'epoca e di quel metodo, che se non fosse esistito non ci avrebbe portato dove siamo.
All'alba del secolo scorso, i Chini si separarono dai loro soci e fecero nascere le fornaci San Lorenzo, proprio a Borgo San Lorenzo, e da qui cominciarono anche la produzione i vetrate dipinte, tipiche del Liberty.

Purtroppo poi la fabbrica fu distrutta dai tedeschi con un bombardamento nel 1943.
Nella villa potete ammirare i due caminetti, creati dai Chini per i Pecori-Giraldi, tanto che hanno dato il loro nome alle due stanze: del caminetto grande, decorato con gli stemmi dei Pecori e dei Giraldi,  e del caminetto piccolo. 
Meravigliosa è la scala elicoidale con lo stemma dei Pecori Giraldi, sempre realizzato dai Chini in ceramica.
Tra le varie sale dove si ammirano i pezzi prodotti dalle due manifatture alle quali i Chini hanno dato vita, 

noi abbiamo ammirato particolarmente la produzione del gres salato (si dice così il gres rivestito da una pellicola vetrosa trasparente ottenuta dal cloruro di sodio come reazione alla fiamma del forno in cui il gres viene cotto) con i suoi disegni blu su base neutra, che abbiamo trovato attualissimi e affascinanti.

Se voleste continuare ad ammirare i lavori della manifattura Chini, basterebbe andare al municipio di Borgo San Lorenzo, che è stato progettato, decorato ed in gran parte arredato, proprio dai Chini.
E c'è chi ci va solo a fare un certificato di residenza!

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domenica 22 aprile 2018

CHE SAPETE DELLA PASSERELLA SUL BISENZIO?!

A parte che negli anni '70 era il luogo deputato alle "forche" scolastiche?!
Mmmmm....forse questo non si doveva dire.
Però era vero. A quei tempi, complice il fatto che da quelle parti c'era l'Istituto Tecnico Commerciale "Sebastiano Nicastro" quello dove ci andavano i figli di papà, e dove comunque  - dice la leggenda - chiunque pagasse veniva via di lì con il diploma, una puntatina ai giardini della Passerella ci si faceva sempre.
E poi era divertente - testa matta di quindicenni - sfidare la tramontana rabbiosa che ci alzava letteralmente di peso, quando passavamo di corsa in pieno inverno su quell'esile ponticello in cemento, così, tanto per sperimentare il paradosso idrodinamico (anche detto Effetto Venturi), per cui in corrispondenza delle strozzature, (lo sbocco della Val di Bisenzio) è la velocità, (quella del vento, in questo caso) ad aumentare.
Se non altro, questa legge fisica, l'avevamo imparata bene!
Poi la vita ci ha portato molto lontani da questo ponte pedonale, così alto e agile che si chiama proprio e solo così "La Passerella".

Abbiamo verificato che non ha un nome, nè è dedicato ad alcuno, è solo quello che è: una passerella pedonale.
Per molto tempo si è creduto che fosse stata progettata da Pierluigi Nervi, tanto è vero che per molto tempo la si è chiamata "Passerella Nervi" anche ad alto livello.
Invece, il progettista è Giulio Kroll, un ingegnere triestino di chiarissima fama, anche se il suo nome è meno conosciuto, perchè in Italia purtroppo si tende ad avere la memoria piuttosto corta per tutto.
Quando l'ing. Kroll aveva già costruito ponti in mezzo mondo, Pierluigi Nervi era ancora agli inizi, e se si tende ad attribuire la Passerella a Nervi,  è perchè  le tecnologie disponibili negli anni '30 del secolo scorso, per costruzione di un ponte siffatto, davano come risultato un'estetica di quel tipo.

Inoltre l'Ing. Kroll era ingegnere capo della Ferrobeton, una grossa ditta di costruzioni, fondata nel 1908 nientemeno che dal Marchese Carlo Feltrinelli, (padre di quel Giangiacomo Feltrinelli, fondatore della omonima casa editrice, e che morì nel 1972 mentre minava un traliccio dell'alta tensione) che, tanto per dire, realizzò le opere di fondazione della Metro di Milano, i bacini di carenaggio di Napoli e Genova e la Torre Velasca di Milano.
In particolare l'ing. Kroll era specializzato nella costruzione di ponti, e quando nel 1950 gli fu assegnato il compito di costruire il Ponte di Mezzo a Pisa, si ispirò proprio alla Passerella che aveva costruito nel 1935 a Prato sul fiume Bisenzio.
Intendiamoci: si tratta di una somiglianza strutturale, ingegnieristica,perchè si tratta comunque di una struttura ad arco a tre cerniere - e non domandateci altro perchè ci siamo letti accuratamente tutta la relazione tecnica con tutte le prove ed i collaudi, senza capirci un'acca - anche se una somiglianza anche estetica, in effetti, l'abbiamo riscontrata anche noi, da perfetti ignoranti quali siamo.
Abbiamo detto che la Passerella non ha un nome, ed è vero, anche se per un certo periodo il popolo l'ha chiamata "Ponte ai quattro", perchè la sua costruzione era stata fortemente spinta e voluta da quattro gerarchi che avevano casa di là dal fiume, e che erano i maggiori utilizzatori del ponte stesso.

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domenica 25 marzo 2018

UN ACQUEDOTTO PER QUATTRO FONTANE.

La distribuzione dell'acqua, nelle città antiche, era sempre un grosso problema.
E l'istituzione di fontane pubbliche, con la conseguente creazione di un acquedotto che le alimentasse, era una spesa veramente considerevole, che era molto spesso sostenuta da qualche ente benefico, o da dei privati facoltosi che volevano che il loro nome fosse ricordato negli anni a venire, per la loro generosità e benevolenza nei confronti del popolo.
Prato non costituiva certo un 'eccezione.
Nel 1644 fu inaugurato il Condotto Reale delle Fonti, realizzato dagli architetti Alfonso Parigi e Ferdinando Tacca, su progetto di Bernardino Radi.
Questo acquedotto, fu realizzato prelevando le acque, pure e gradevoli dal punto organolettico, dalle fonti di Canneto, Filettole e Carteano, e fu finanziata dai Ceppi, insieme ad alcune facoltose famiglie cittadine, che ne approfittarono per allacciarsi alla conduttura e ottenere quindi un lusso inaudito per l'epoca: l'acqua corrente in casa.
Se possiamo condividere il punto di vista delle famiglie facoltose, ci rimane però un dubbio amletico: chi cavolo erano i Ceppi?
Bene, i Ceppi, o più esattamente Pia Casa dei Ceppi, era la più antica istituzione benefica della città di Prato.
Tutto nacque nel 1282, quando l'eminente Monte Turino de' Pugliesi, fondò il "Ceppo Vecchio". In seguito, alla morte del'altrettanto eminente cittadino pratese Francesco di Marco Datini, per sua precisa volontà testamentaria, nacque il cosiddetto "Ceppo Nuovo".
(certo, anche a noi si è accesa una lampadina in testa quando abbiamo sentito questi nomi, abbinandoli ai nomi di due strade del cento di Prato!)
Nel 1545, dopo il tragico evento del Sacco di Prato, allo scopo di venire in soccorso ai superstiti della brutalità della soldataglia spagnola, i due enti benefici vennero riuniti in un'unica associazione denominata "Casa Pia dei Ceppi dei Poveri di Prato".
Per inciso, l'istituzione si è chiamata così sino al 1890, poi ha subito varie trasformazioni ed aggiustamenti, ma è tuttora esistente con il nome di Fondazione Casa Pia dei Ceppi Onlus. 
Niente male: quando venne scoperta l'America, esisteva già da 210 anni!
Ma torniamo al nostro acquedotto.
L'acquedotto partiva - anzi, parte ancora . da due passi prima della Chiesa di San Paolo a Carteano, in un luogo di incredibile ed incontaminata bellezza, se si pensa che è ad un tiro di schioppo (e di calibro piccolo, un 12 diciamo) dalla città.
Pochi passi prima, troviamo un anonima costruzione con una porticina di ferro.
Ecco, quello è l'inizio del Condotto Reale.

Quei due passi che abbiamo evitato di fare in salita verso la chiesa, facciamoli in piano, e ci troviamo davanti ad un lavatoio seicentesco, ripulito e riportato in vita dal lavoro e dalla passione del gruppo archeologico Offerente di Prato.
Il condotto Reale porta l'acqua, tra l'altro, a quattro fontane molto famose del centro di Prato.
La prima è la fontana del Pescatorello in Piazza del Duomo.


Certo, lo sappiamo, nessuno la conosce con questo nome: per tutti è "la Fontana del Papero", anche se lo scultore non ha certo raffigurato dei paperi, ma dei cigni, ma i pratesi non stanno certo a sottilizzare sul tipo di volatile.
E poi comunque sono due.
Non si sa come mai nessuno ha mai considerato il pescatore che sta in cima alla fontana, tutti guardano solo i "paperi"
Una curiosità sulla collocazione di questa fontana, che è nel centro della piazza del Duomo, dalla metà dell'ottocento, come voleva la moda di allora.
La fontana precedente, opera di Ferdinando Tacca, era invece collocata nell'attuale Largo Carducci, quindi in posizione molto più defilata, e che permetteva quindi alla piazza di venire meglio utilizzata per la vita sociale e per le riunioni di popolo.
L'altra è la fontana più famosa di Prato, la "Fontana del Bacchino", in piazza del Comune, proprio davanti al Palazzo Pretorio.

Fu realizzata tra il 1659 ed il 1665 dallo scultore pratese Ferdinando Tacca, in occasione della proclamazione di Prato a "Città", cioè un centro urbano strutturato, mentre sino ad allora era considerata "Terra", vale a dire un centro agricolo.
La figura di questo Bacco, giovane e allegro, (da cui il nome "Bacchino")  emerge dai grappoli, da cui escono zampilli d'acqua che , che scendono nella conchiglia intermedia, e di lì nella vasca ottagonale, da cui poi esce in quattro vaschette semicircolari.
Nel XIX° secolo fu inaugurato l'uso di rinfrescarci dentro dei cocomeri, da donare alla popolazione assetata nel giorno del 15 agosto.
La tradizione continua tutt'ora, anche se pare che a beneficiarne sia più che altro la comunità cinese, che notoriamente non va in ferie in agosto.
Altra fontana alimentata dal Condotto Reale è la "Fontana dei Delfini" in Piazza San Francesco.

Se la Fontana del Pescatorello è in marmo, quella del Bacchino in bronzo, (e comunque quella in piazza del Comune è una copia, perchè l'originale si trova all'interno del palazzo Pretorio) la Fontana dei Delfini è in arenaria, ed anche questa è una copia.
Ma l'originale non esiste, perchè la Fontana dei Delfini", che era stata progettata e costruita sempre dal Tacca, più o meno nel periodo di quella del Bacchino, ma con committenti molto meno forniti di denaro.
Lui infatti consigliava di fare la fontana in marmo, un materiale assai durevole, ma anche molto costoso.
Invece chi pagava aveva i soldi solo per farla in pietra arenaria, che è un materiale assai meno resistente. 
Infatti, la fontana era così malridotta nel negli anni '30 del secolo scorso fu completamente rifatta; quindi quella che vediamo adesso è una copia novecentesca. E a voler far bene ci sarebbe da rifarla di nuovo, perchè l'inquinamento ha pesantemente rovinato l'arenaria in cui era costruita la copia.
Forse, volendo rifarla adesso, si potrebbe pensare di seguire le indicazioni originali del Tacca, una buona volta!
(ma i tempi, ahimè, non sono migliorati dal 1665...)
Ultima fontana alimentata dal Condotto Reale: la "Fontana del Maghero"

E qui vi volevamo. 
Siamo convinti che quasi nessuno la conosce con il suo nome, e quindi è difficile collocarla. Ma vi risparmieremo un mal di testa, dicendovi subito che si trova sul Mercatale, alla congiunzione tra via de' Saponai e via Garibaldi.
A vederla ha un'aria molto dimessa, per decenni non buttava più acqua.
L'avevano riparata, ma adesso è di nuovo spenta.
Sembra più un abbeveratoio per animali che una fontana, ed infatti solo nel 1966 sono state tolte le inferriate che impedivano ai cavalli o agli asini di avvicinarsi e di bere (povere bestie, e perchè poi?)
In realtà era una fontana molto importante, anche questa costruita "in economia" e quindi in quella pietra arenaria che con i secoli si è talmente corrosa da far sparire qualsiasi decorazione.
Dello stemma che appare in alto, sappiamo che riportava lo stemma di Prato, solo perchè lo abbiamo visto su dei disegni che la rappresentavano, e a quanto pare, almeno lo stemma era stato rifatto almeno una volta.



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domenica 18 marzo 2018

LE COLLINE SOPRA PONTASSIEVE: UN CASTELLO E DUE SANTI

Ne abbiamo già parlato: le colline sopra Pontassieve sono un posto splendido, oltre che carico di storia praticamente in ogni ciottolo che si trova lungo la strada.
E quindi fanno proprio al caso nostro: turismo a chilometri zero, luoghi interessanti che abbiamo vicini e che non conosciamo.
Insomma, il nostro motto.
Sopra Pontassieve c'è il castello del Trebbio: ci dobbiamo passare per andare a Santa Brigida, per cui non spendiamo niente a fermarci a dare un'occhiatina.
Adesso e' in parte agriturismo/ristorante, e in parte abitazione privata.

Una gran bella abitazione, vorremmo dire.
Ma quello che ci interessa è la sua storia, perchè questo antico castello, fatto erigere dai Conti Guidi nel XII° secolo in questa località, detta Monte Croce, fu acquistato tra il XIII° ed il XIV°, insieme a tutte le terre circostanti, dalla nobile famiglia fiorentina dei Pazzi, che ne fece il proprio quartier generale.
Fu nelle sale di questo castello che fu ordita la famosa congiura, quella dove, la domenica di Pasqua del 1478, Giuliano de' Medici fu ucciso nella cattedrale di Santa Maria del Fiore, mentre suo fratello Lorenzo riuscì a scampare alla morte.
A seguito di questo fatto di sangue, il castello, insieme a molti altri beni dei Pazzi, fu confiscato. La famiglia ne rientrò in possesso solo molti anni più tardi, e rimase di loro proprietà sino al secolo XVIII°.
Ripartiamo verso Santa Brigida, frazione del comune di Pontassieve.
La Santa Brigida di cui parliamo, non è la Santa Brigida di Svezia, nè la Santa Brigida patrona d'Irlanda, anche se era irlandese anche lei.
(anche se tutti i documenti la danno proveniente dalla "Scotia", bisogna ricordare che questo era il nome dell'Irlanda, nel medioevo).
Dunque, era irlandese, ed era sorella di quel sant'Andrea che aveva vissuto in quel luogo una santa vita da eremita.
La sua cella la possiamo ancora vedere nella cripta del Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso (link), infatti in quel luogo il sant'uomo aveva eretto un piccolo tabernacolo venerato dal popolo,  dove poi apparve la Vergine Maria alle pastorelle, e dove poi sorse prima una chiusa e poi il santuario che conosciamo.
Ma torniamo ad Andrea di Scotia che, gravemente malato, esprime il desiderio di rivedere l'amata sorella prima di morire.
Brigida, che era in Irlanda a farsi gli affari suoi, si trovò improvvisamente trasportata dagli angeli al capezzale del fratello malato, vicino a Fiesole.
Lo assistette amorevolmente per tutta la durata della sua malattia, e quando morì fece voto di rimanere tutta la vita vicina alla sua tomba.
Si rifugiò in una piccola grotta e lì visse, svolgendo opere caritatevoli e facendosi amare molto dal popolo, sino alla bella età di 103 anni.
La grotta, un po' risistemata, esiste ancora. Pochi scalini, dalla piazza del grazioso paesino, portano a quella che dovrebbe essere stata la grotta in cui la santa passò la sua esistenza di penitenza e carità.

Sopra la grotta è stata costruita la chiesa, a lei intitolata.
Nella piazza antistante la chiesa, da cui si ammira un panorama a dir poco grandioso, una statua in bronzo di una suora giovane e bella - che potrebbe essere chiunque - è dedicata sempre alla santa irlandese.

Per il santo successivo, in linea d'aria bisognerebbe spostarsi di poco, ma non c'è una strada che metta in comunicazione Santa Brigida con il Mugello, anche se non possiamo escludere che non esista un sentiero percorribile a piedi, che unisce le due località.
Bisogna quindi rassegnarsi a fare un po' di chilometri e spostarsi verso Borgo San Lorenzo, verso la Pieve di San Cresci in Valcava.
Una piccola curiosità: San Cresci in Valcava fu comune autonomo per un brevissimo periodo, tra il 1808, quando lo creò l'amministrazione francese, ed il 1815, quando il Granduca, tornato al suo posto, lo riaccorpò  al comune di Borgo San Lorenzo.

Ma torniamo a San Cresci, che è stato il prima martire del Mugello.
Era originario della Germania, era venuto in Italia per visitare le tombe dei martiri, e sentendo parlare di un eremita, Miniato, si unì a lui nei boschi delle colline intorno Firenze.
Quando vennero catturati dai soldati dell'imperatore Decio, Miniato fu martirizzato, Cresci invece fu imprigionato. Uno dei suoi carcerieri aveva una bambina ammalata e lui la guarì. Allora lo fece fuggire, unendosi a lui.
Trovarono rifugio in Valcava, dove Cresci fece alcune guarigioni miracolose, tra cui il figlio della povera donna che aveva ospitato i fuggitivi.
La fama della sua santità cresceva, e molti venivano battezzati, tanto che alla fine anche i soldati di Decio li trovarono.
Uccisero i suoi compagni e poi tagliarono la testa anche a lui. Infilzarono la testa su una lancia con l'intenzione di portarla a Florentia, al prefetto. Ma la testa era diventata così pesante che era diventata impossibile da trasportare.
La testa cadde dalla lancia e non fu più possibile spostarla da lì di un centimetro.
Allora i superstiti seppellirono Cresci e i suoi compagni in quel punto, ed in seguito lì sopra fu costruita una piccola chiesa.
Questo luogo, di rara pace e bellezza, è quindi sacro fin dall'anno del martirio di Cresci, il 250 D.C.
Da lì la chiesa si ingrandì - non di molto - ma i frequenti terremoti che hanno colpito queste zone, l'ultimo dei quali nel 1919 l'ha quasi distrutta, ed infatti all'interno non troverete grandi opere d'arte, proprio per questo motivo.
Ha sùbito vari rifacimenti, sino ad arrivare ai giorni nostri, così come la vedete adesso.

Qui accanto sorge un convento? non sembra, c'è una targa che parla dei padri passionisti, e sicuramente in un luogo che parla così tanto allo spirito, almeno un riferimento ad un ordine religioso doveva esserci.

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domenica 11 marzo 2018

IL CASTELNUOVO DI PRATO

Nel nostro girovagare molte cose accadono per caso. E una volta anzichè passare per la strada principale, sei costretto, a causa di un trattore,  che facendo una rotonda ha sparso il letame dappertutto, a fare una strada alternativa, ti capita casualmente, di passare da una strada dalla quale tu, pur essendo pratese, non eri mai passato.
E ti capita di capire che Castelnuovo di Prato non è solo via di Giramonte, come sempre avevi pensato, ma che trovi una piazza, una chiesa (e che, no?!) e - sorpresa - due antiche mura in mezzo ad una strada.
E che mentre cerchi di capire dove ti porti la strada persa nella campagna (vabbè, mica ti troverai al confine svizzero...), ripensi a quelle antiche mura, e appena torni a casa ti precipiti a cercare di trovare qualche notizia.
Non ci vuole un grande acume per capire il significato del toponimo Castelnuovo: Castello Nuovo: un borgo di fondazione, come ce ne sono stati tanti, vedi i vari Castelfranco di Sopra (che è in provincia di Arezzo) e Castelfranco di Sotto) che è in provincia di Pisa.
 Che non erano altro che cittadine di nuova fondazione;  Castelli "franchi" appunto, nati per iniziativa della Repubblica Fiorentina,  dove la gente veniva incoraggiata ad andare ad abitare ed ad aprire nuove attività esenti da tasse, allo scopo di costituire nuovi baluardi, in un caso contro Arezzo e nell'altro contro Pisa, dove il "di sopra" e il "di sotto" si riferisce solo alla posizione rispetto al corso dell'Arno.
Ecco, anche Castelnuovo di Prato, nel suo piccolo, costituiva un baluardo a difesa del comune di Prato, contro l'avversa Pistoia, al limite delle terre da poco bonificate ed in prossimità del corso del fiume Ombrone.
Pare certo che fosse cinto da mura, che le davano un disegno quadrato.
Le mura che vediamo ancora adesso erano la porta a nord, e - sopresa - la porta è rimasta lì sino al 1944, quando viene distrutta dai tedeschi.

Chissà mai che cosa ci avranno visto di pericoloso i tedeschi, in una porta medioevale di una piccola frazione persa nella campagna... mah!

Dalle mappe catastali che il  nostro ben più preparato collega blogger Salvatore Gioitta, ha consultato, pare che l'altra porta, di cui non rimane alcuna traccia, non fosse collocata dalla parte opposta della porta di cui rimangono i basamenti, ma su un gomito orientato ad ovest della stessa strada, che portava a Prato, e che doveva essere parallela all'attuale via Roma.
Attualmente la strada, che cammina tra edifici restaurati ma dall'aspetto molto antico, si perde tra i campi e non dà nessun segno di sè.
Sempre il Gioitti, ci aiuta a capire il borgo era cinto, oltre che da mura, anche da un fossato, che in parte esiste ancora ed in parte è ricordato dal nome di una strada (via del Fossato).
Tutte queste caratteristiche, Castelnuovo le ha potute conservare perchè è molto lontano dall'abitato di Prato, ed è riuscito nel corso degli anni a conservare una sua caratteristica di unità, non essendone stato inglobato, come invece è successo a molte altre frazioni più vicine.

grazie a Salvatore Gioitti ed al suo "note e immagini da Prato, una città toscana, disordinata e sull'orlo di una crisi di nervi(e una provincia sulla via dell'estinzione)"

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domenica 18 febbraio 2018

L'ANFITEATRO ROMANO DI FIRENZE

Che i romani a suo tempo avessero costruito Firenze a Fiesole, era cosa nota.
Il pantano che era il fondovalle, con le sue febbri malariche, non era nè agevole nè benevolo, mentre le colline erano salubri e ben difendibili.
Vero è anche che quando si parla di Fiesole romana si parla dell'epoca repubblicana, mentre quando si parla della Florentia romana si parla di epoca imperiale, quindi secoli dopo, verso il II° secolo d.C., quando il fondovalle era stato bonificato ed era ormai abbastanza salubre e vivibile anche per le raffinate abitudini romane.
Come in ogni città romana che si rispetti, anche a Florentia erano state costruite terme, teatri ed un imponente anfiteatro, uno dei più grandi della penisola, secondo solo al Colosseo di Roma, all'Arena di Verona e a quello di Pompei.
La scelta della posizione era ai limiti dell'area urbana, che venne raggiunta solo nell'epoca in cui era al potere l'imperatore Adriano.
L'edificio doveva essere alto circa 19 metri, e di forma ellittica, come tutti gli anfiteatri, ma mancano i dati precisi su dove fossero posizionati esattamente gli ingressi principali, e come fossero distribuiti i posti sui due anelli delle gradinate.
Anche se, come tutte le costruzioni romane dopo la caduta dell'impero, fu certamente usato come cava di materiale da costruzione, si può notare che le sovrastrutture medioevali della Piazza Peruzzi, via Bentaccordi e via Torta,

seguono alla perfezione la curvatura ellittica del vecchio anfiteatro, anche se la struttura non è così perfettamente visibile come è in quello di Lucca, che addirittura al suo interno ha ancora una piazza, e che all'esterno ha ancora dei rimasugli di vecchie mura!

Ma se guardiamo attentamente il perimetro delle case lungo le mura, troveremo ancora qualche traccia dell'antico monumento; infatti, entrando nella piazza dei Peruzzi, e posizionandosi davanti al muro curvo, notiamo una fila di archi nel perimetro esterno dell'anfiteatro.
Anche degli ignoranti di architettura come noi, notano che non si tratta di archi medioevali, ma di archi a tutto sesto, tipici dell'architettura romana.

Una curiosità nella curiosità: gli archi non risultano oggi nella loro altezza originaria perchè il livello stradale della piazza Peruzzi è più alto di due metri rispetto al livello del terreno in epoca romana!
Anche altri particolari dell'anfiteatro sono stati utilizzati in altro modo: per esempio, la rete di corridoi sotterranei sotto la costruzione, sono stati utilizzati come carceri già in età longobarda, e poi in età comunale.
Una notizia che non molti sanno, è che tra la piazza Peruzzi, e il fiume Arno, sorgeva la Scuola dei Gladiatori, dove i combattenti si allenavano e dove vivevano (quelli che riuscivano a farlo...), e che sicuramente c'era anche il passaggio sotterraneo che, come nel Colosseo a Roma, portava i Gladiatori dalla Ludus Magnus (cioè la Caserma di cui sopra) sin dentro l'anfiteatro.




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(notizie fornite dal testo "Antiche curiosità fiorentine" di Enio Pecchioni)

domenica 11 febbraio 2018

L'ISOLA DELLE API INDUSTRIOSE

Ci sono delle cose che nel tempo hanno perso completamente la loro connotazione originale, e adesso hanno un aspetto completamente  diverso da quello che a suo tempo può aver addirittura ispirato uno scrittore come Carlo Lorenzini, detto Collodi.
In un episodio di Pinocchio, Collodi fa riferimento ad un'isola delle Api industriose, un paese dove tutti avevano un'occupazione e non esisteva nessuno che stesse in ozio.
Ecco, quest'isola si trova nell'Osmannoro, lungo la via Lucchese, a cento metri dalla Motorizzazione Civile di Firenze.
Stupìti... vi vediamo stupìti (per citare un verso di una canzone di Guccini)
Procediamo con ordine.
Chi conosce la zona sa che di fronte ai capannoni della Motorizzazione, proprio sulla sinistra della via Lucchese (per chi va verso Firenze) c'è un piccolo complesso di - chiamiamoli così - piccoli capannoni con un ponticino per accedervi ed un campanile a vela, che ricordava i villaggi messicani nei vecchi film western.

Sino a metà ottocento, l'Osmannoro era una palude, e quando nella brutta stagione pioveva (più di adesso), la zona da paludosa che era, diventava tutta un lago. 
Ci si spostava con i tipici barchini da palude, oppure con delle botti tagliate a metà!
L'unica striscia di terra che rimaneva emersa era proprio quella dove sorgeva questo piccolo complesso.
Non sono piccoli capannoni; chi ha voglia di parcheggiare la macchina e di andare a dare un'occhiata, scoprirà quel che è rimasto di un antico ospedale per i pellegrini, con tanto di chiesetta (dove adesso c'è un'officina) con il famoso campanile a vela, un rimasuglio di chiostro e un cortile.

Lo Spedale risale almeno al 1250, e la chiesetta era dedicata alla Santa Croce, e infatti di chiamava proprio Santa Croce all'Ormannoro, o Smannoro, come si chiamava il fosso su cui sorgeva.
Il nome derivava dagli antichi proprietari della zona, gli Ormanni, anche se lo Spedale era sotto il patronato della famiglia degli Spini, di cui rimane un malandato stemma.

Fu costruito essenzialmente per assistere i malati di malaria, che certamente in quella zona ed a quel tempo non dovevano mancare, e comunque come lazzeretto per tutte le malattie che dovevano stare lontane dai centri abitati.
Ma come tutti i luoghi pianeggianti e paludosi, erano anche infestati di briganti, per cui doveva servire anche come ricetto per i viandanti.
In quello che a quei tempi era un vero deserto, si ritirarono in eremitaggio dei monaci Agostiniani, che con il tempo trasformarono l'ospedale in un convento.
Fu allora che Carlo Lorenzini ci andò, proprio quando la piccola altura emergeva dall'acqua come un'isola, e fu lì che ebbe l'idea dell'isola delle api industriose
Poi a verso la metà del XIX secolo la zona fu bonificata, i frati se ne andarono e la chiesetta fu sconsacrata.
Nel fienile c'è stato un'autosalone e adesso c'è un ristorante.
Sul portone del convento avevano messo una riproduzione di un razzo - chi era ragazzo negli anni settanta del secolo scorso se lo ricorda - ed intorno al vecchio convento sono nate autostrade, capannoni (veri, stavolta) e inceneritori (link).
Insomma, manca l'acqua ma lo squallore è lo stesso.

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domenica 4 febbraio 2018

L'INCENERITORE DI SAN DONNINO

Quella sagoma inquietante che si vede passando dall'autostrada del Sole, è una specie di antitesi della chiesa dell'autostrada, un condensato del male, in pratica.

Le sue due ciminiere grigie sono un monito, un ricordo, una ferita mai guarita.
Fa venire in mente l'ICMESA, la diossina, Seveso.
E certamente quello che usciva dalle due ciminiere grigie sino al luglio del 1986 era una  sostanza molto simile da quella che uscì dalle ciminiere dell'ICMESA di Seveso il 10 luglio del 1976.
La nube di Seveso era TCDD, la più pericolosa diossina conosciuta, ed uscì tutta insieme per un guasto al reattore; i venti favorirono la propagazione della nube tossica in una vasta area densamente popolata tra Seveso, Meda, Cesano Maderno e Desio.
La zona contaminata fu quindi molto vasta, e la nube provocò danni enormi alla popolazione, all'agricoltura ed agli animali, che morivano  uno dopo l'altro, (questa è una cosa di cui non si parla mai, ma gli animali, proprio per le ridotte dimensioni, non si ammalano: muoiono).
Tuttavia le operazioni di bonifica iniziarono quasi immediatamente e l'azienda colpevole del disastro fu chiusa, il reattore e la vasca furono racchiusi in un sarcofago di cemento armato, e altre vasche ignifughe e monitorate - per evitare qualsiasi perdita - raccolgono tutto il terreno di superficie di tutta la zona denominata A, dell'estensione di circa 108 ettari;  e sopra il quale è stato realizzato un parco naturale denominato Bosco delle Querce.
Quella di San Donnino era "solo" PCDO, una diossina meno pericolosa, ma combinata con PCDF (policrodibenzofurani, per chi sa cosa vuol dire), ma rilevata nel terreno in concentrazioni 4 volte superiori a tutti i limiti massimi consentiti; ed emessa per un periodo molto lungo, dal 1973 - anno della sua inaugurazione - al 1986,  anno in cui l'USL di Firenze fece questa bella scoperta e l'inceneritore fu chiuso in tutta fretta.
Anche a San Donnino si è fatto un parco, il "Chico Mendez" (link) riqualificando una cava di sabbia presente in zona, ed altri interventi urbanistici sono stati pensati, e realizzati,  dalle varie amministrazioni comunali che si sono succedute.
Tuttavia, la differenza fondamentale con Seveso, è che qui il territorio non è mai stato bonificato, nè si è mai provveduto a fare un serio censimento delle persone che sono state colpite dai vari tipi di tumori, e che seri  studi hanno invece dimostrato essere notevolmente aumentati.
Anche perchè, questo avrebbe significato dover studiare poi il modo di risarcire le popolazioni colpite da questo disastro.
Da allora questo grigio monumento di cemento continua a troneggiare vicino all'A1,  e non è mai trovato il modo di riutilizzarlo in nessun modo.
si utilizza il piazzale come isola ecologica, per permettere ai cittadini di portare allo smaltimento ciò che in casa non serve più o ingombra, ma nel 2016, per cause del tutto accidentali, divampò un incendio durante la macinatura dei rifiuti, che provocò un'altissima colonna di fumo nero.

Grande fu la paura della popolazione, tant'è che quella che allora era la proposta di riutilizzare il vecchio inceneritore come termovalorizzatore controllato, capace di produrre energia elettrica per il fabbisogno di circa 40.000 famiglie... decadde all'istante.
Come a dire, che quando si è stati morsi da un serpente, anche una corda fa paura!

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domenica 28 gennaio 2018

LO STROLAGO DI BROZZI (E LA STRANA STORIA DI BROZZI)

Con che cosa cominciamo?
forse è meglio cominciare con Brozzi.
Che adesso è solo un sobborgo alla periferia occidentale di Firenze, ma che sino al 1928 era un grande e popoloso comune.
E qui vorremmo spendere due parole sullo stravolgimento che nel 1928 ridisegnò la carta geografica italiana.
Ci piacerebbe fare un post su questa cosa, ma l'argomento è talmente vasto che si siamo un tantino scoraggiati. Lo accenniamo soltanto.
Quante volte abbiamo parlato del fatto che nel 1928 il Regime Fascista aveva istituito le province? e che ne aveva ridisegnato alcuni confini? un esempio lo trovate nei vari posti sulla Romagna Toscana (link) e (link) derivanti dal fatto che il Tevere, fiume della romanità, doveva nascere in Romagna, luogo natìo del Duce, e non in Toscana; anche se quelle terre erano toscane da secoli e secoli.
Altro esempio è Rieti, che è culturalmente Abruzzo, ma che fu creata provincia proprio nel 1928, rubando territori a Perugia ed a l'Aquila, ed inserita geograficamente nella regione Lazio - della quale si è sempre sentita una figlia poco amata - solo perchè Rieti è il centro geografico della penisola Italiana, e nella testa di Mussolini, doveva far parte del Lazio....
Anche dalle nostre parti abbiamo esempi su esempi di questo stravolgimento, e qui torniamo a Brozzi, che era appunto un bel comune, grande e popoloso, ma che fu smembrato e cancellato dalla carta geografica, per allargare i confini della città metropolitana di Firenze, al quale aveva il torto di essere un po' troppo vicino.
A Firenze fu assegnato l'antico abitato di Brozzi propriamente detto, insieme alla vicina Quaracchi, Petriolo, Peretola e la Sala.
A Sesto Fiorentino fu assegnato la frazione dell'Osmannoro, mentre a Campi Bisenzio toccò San Donnino, e a Signa una porzione di territorio presso l'Arno.
Se si percorre via di Brozzi a piedi, si trovano le tracce di un'antico borgo; ogni pochi passi si trova una corte, con il suo arco, le casette che si affacciano sull'acciottolato, a volte dipinte in colori vivaci, segno evidente che la gente ci vive, e rinnova le sue case di generazione in generazione.

In altre invece le case hanno un aspetto spento, o sono abbandonate e tristi.
Come lo sono  - purtroppo . molte delle botteghe lungo tutta la strada.
Troppo vicino alla grande città, per non essere nient'altro che uno dei tanti quartieri dormitorio che la circondano.
A metà si trova una costruzione di mattoncini rossi, di aspetto chiaramente medioevale. E' il torrione di Brozzi, risalente al XIII secolo, che faceva parte della dimora del palazzo Orsini, e che rappresenta una delle costruzioni più importanti del borgo.

Nei pressi di questo torrione, in una abitazione che non siamo riusciti ad identificare, risiedeva lo Strolago di Brozzi del titolo, meglio conosciuto come 
Sesto Cajo Baccelli , nipote di Rutilio Benincasa (si, proprio quello del lunario azzurro che si comprava dal giornalaio all'inizio di gennaio, per la nonna).
Questo tipo strano di cui si diceva che "riconosceva i pruni al tatto e la merda al puzzo" non doveva essere evidentemente un granchè come indovino, vista la citazione...
Ed infatti noi abbiamo ancora la memoria delle nostre nonne che dicevano, dell'astrolago di moda in televisione "si...quello par lo strolago di Brozzi" e la nostra fiducia immediatamente cadeva al livello delle fogne di Calcutta.
Comunque, chi per lui ci ha fatto su un'industria in piena regola, perchè questi librettini azzurri del lunario sono stati sempre molto venduti, ed hanno generato una quantità di imitazioni di altrettanto successo. (primo tra tutti il calendario del Barbanera, famoso in egual misura).


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domenica 21 gennaio 2018

CURIOSITA' INTORNO AL CASTELLO DELL'IMPERATORE

Quindi il concetto è che qui NON si parla del Castello dell'Imperatore, cosa che, del resto, avevamo già fatto in un precedente post.(link)
Si parla di quello che c'è intorno, tante curiosità che, ammaliati dalla mole del castello federiciano più settentrionale d'Italia, passano spesso inosservate.
In un angolino della piazza che circonda il Castello, all'inizio di una piccola via che sia chiama via San Giovanni, c'è un edificio in mattoni rossi, come ce ne sono a centinaia in tutta la città, specie piccoli edificio ad uso artigianale.
Ed infatti, se abbiamo localizzato bene il luogo e facciamo un piccolo sforzo di memoria, ricordiamo chiaramente di averci visto per anni ed anni una piccola officina meccanica. 

Ed invece è la ex Chiesa di San Giovanni Gerosolimitano (vuol dire: di Gerusalemme), uno degli edificio più antichi della città, risalente al XII secolo e fatta costruire dai Cavalieri di Malta, che l'avevano adibita a Spedale.
Non turbi questo abbinamento: all'epoca era cosa normale; costruire un edificio era molto costoso e nello specifico uno Spedale che fungeva anche da chiesa di un qualche ordine ospedaliero era assai comune.
Dopo secoli di utilizzi alternativi - di cui l'officina è stata solo l'ultimo episodio - la piccola chiesa ad una sola navata è stata recuperata da un fondo di investimento privato, che l'ha destinata a sede di mostre, oppure di eventi privati (a pagamento, s'intende) in modo da recuperarla alla vita sociale della città.
Al suo esterno c'è una piccola maschera in cotto, raffigurante una testa umana contornata da vari altri simboli.

C'è chi dice che si tratti di Bafometto, un idolo pagano che è stato associato al satanismo ed ai Cavalieri Templari, accusati di venerarlo.
A noi sembra poco credibile che una rappresentazione del demonio sia sopravvissuta per tanti anni sul frontale di una chiesa cristiana, per dire la verità.
A noi moderni piace credere a queste cose, ma ne sono successe tante, dal XII secolo ad oggi, per cui quella mascherina dovesse essere tolta da lì, se fosse stato vero!
Andando verso la piazza, troviamo in un angolo, proprio dietro la facciata posteriore della Chiesa di San Francesco - che secondo la nostra opinione è assai più bella di quella anteriore, o perlomeno è diversissima da quella anteriore: classico romanico toscano, mentre la facciata posteriore sembra (ma noi siamo degli ignoranti in fatto di architettura) quasi gotica - a delimitare il giardino degli ulivi, pochi metri delle antiche mura di Prato.
Stiamo parlando della prima cinta muraria, quella costruita nel XI secolo e che lasciava fuori sia il castello degli Alberti, sulle cui rovine fu poi fatto costruire l'attuale Castello dell'Imperatore, sia la chiesa di Santo Stefano.

Fu costruita per unificare i due borghi da cui è nata la città di Prato, Borgo al Cornio, che si situava all'incirca dove adesso è via Garibaldi, e il Castello di Prato, che comprendeva il centro cittadino attuale, escluse le piazze più grandi (Duomo, Carceri e San Francesco).
Lo so che adesso sembra una stupidata; due città diverse in pochi metri. Ma qui stiamo parlando dell'Alto Medioevo, mica si potevano spostare con la tramvia!
Proseguendo verso Piazza San Francesco, troviamo un'altra curiosità: via San Bonaventura, che è la strada più corta della città, meno di cinquanta metri.

Avevamo sempre pensato che la strada proseguisse costeggiando l'attigua piazza Sant'Antonino e poi Piazza San Francesco.
In effetti google maps sembrerebbe confermare questa ipotesi, ma fonti ben informate, tra cui lo stradario del comune di Prato, ci dicono che la strada è solo quella compresa tra la chiesa di San Francesco e le costruzioni prospicenti piazza Sant'Antonino. 
Lo sappiamo, non è una gran notizia, ma avevamo promesso delle curiosità, mica di svelare i segreti della pietra filosofale!
Se giriamo in Piazza Sant'Antonino e ci dirigiamo verso le mura del giardino Buonamici, ci troviamo in una piccola piazza, sempre poco frequentata, e che si chiama Piazza di Santa Maria in Castello.
Chi non è più giovanissimo, si ricorda che quando finivano gli spettacoli al cinema Eden, si usciva in questa piazzetta.
Però ci siamo sempre domandati che c'entrasse con il nome di una chiesa, che in quella piazza non c'è. 
Anzi, sarebbe più esatto dire che non c'è più.
Se ci si avvicina al muro del giardino Buonamici  e si guarda verso il lato opposto della piazza, si vede che la casa che si ha di fronte ha un aspetto strano: 
Nella facciata è inglobato il frontone di una chiesa!

E' come un'illusione ottica, se sai cosa guardare lo vedi.
Era la chiesa più importante del Castello di Prato, di cui vi abbiamo accennato.
E' stata soppressa nel 1783, e trasformata in casa di abitazione.
In tempi recenti è stata abilmente restaurata all'esterno, in modo che possa essere riconoscibile la struttura della chiesa: il portone circondato di pietra alberese, il rosone centrale, la forma del tetto.
Per il momento abbiamo trovato solo queste...
Ma siamo sicuri che scavando ancora, troveremo altre cose curiose.
Abbiate fede.


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domenica 14 gennaio 2018

MONTEROTONDO MARITTIMO ED IL PARCO DELLE BIANCANE

Qui ci sono da fare un po' di chilometri.
A noi son sembrati tanti, abituati come siamo ai nostri chilometri zero, ma a chi non ha problemi ad andare a Follonica solo per andare a sdraiarsi al sole, o per fare un bagno in mare, sicuramente non sembrerà così lontano.
Infatti stiamo parlando del paese di Monterotondo Marittimo, che - come tutti i paesi che hanno "marittimo" nel nome - è in montagna, e Monterotondo, perchè il colle sul quale sorge il borgo è pressochè conico.
Semplice, no?
E' nel pieno delle colline Metallifere, terra di miniere, ora quasi tutte chiuse, ma che riservano ancora un bel po' di sorprese, come queste concrezioni, scarto della lavorazione del rame.

Ma torniamo a Monterotondo che, oltre a sorgere in una zona ricca di minerali, è vicina sia a Siena che a Pisa, e questo ha fatto sì che fosse sempre sempre al centro di contese politiche ed economiche.
E, naturalmente, non mancava la voglia di autonomia del borgo, sull'esempio della vicina Massa Marittima.
Ma nel 1163, Federico Barbarossa - si, proprio lui - concesse il privilegio sui castello alla nobile famiglia degli Alberti.
Questa Famiglia degli Alberti è un ramo di quella dei Conti di Prato, nel senso che sono parenti, ma non sono proprio gli stessi.
Ma siccome sempre Alberti erano, e quindi litigiosi, attaccabrighe, armeggioni e spesso implicati in affari poco puliti, dopo alterne vicende  il castello di Monterotondo passò sotto il dominio di Massa Marittima, e ci rimase sino al 1263, quando fu preso dalla Repubblica Senese.
Poi nel 1554 arrivarono le truppe medicee che rasero al suolo il castello; malattie ed epidemie fecero il resto e la popolazione di Monterotondo si ridusse a poche decide di abitanti.
Del Castello rimane davvero molto poco da vedere, solo un paio di porte, le più recenti perchè si tratta di un fortilizio che nel corso dei secoli è stato ricostruito innumerevoli volte sulle proprio rovine, e alcuni tratti delle mura. Il resto è stato inglobato nelle case di abitazione, e non è visibile.

Ma la maggiore attrattiva di questo piccolo borgo è il parco delle Biancane. 

Le biancane, per chi non lo sapesse, sono delle collinette chiare, che devono il loro colore alla forte presenza di sali minerali, e la fuoriuscita di sodio solforato causa una reazione chimica, trasformando tutto in gesso.
Questa bella pappardellina l'abbiamo copiata pari pari da wikipedia, tanto per dare una spiegazione geologica. Ma siccome la sola parola "geologia" ci fa venire sonno, allora lasciamo le spiegazioni tecniche a chi ne sa più di noi.
A noi piace molti di più descrivervi che posto strano e meraviglioso sia questo, dove il vapore esce sbuffando dalle rocce bianche come la neve, e bisogna tenersi lontani perchè è molto pericoloso!
Come da una specie di belvedere si possa ammirare (si, ammirare) il fango grigio chiaro che sbuffa, e salta, e borbotta, sotto di noi, avvolto in una fascinosa nebbiolina. 

E di come la vegetazione sia stanca, esausta, vicino a questo calore interminabile,e che ricopre di una leggera patina bianca qualunque cosa, e della terra rossa che si scopre nelle impronte delle scarpe di chi ci ha preceduto, e delle rocce color rame che sono rimaste dagli scarti di lavorazione di chissà quanti anni, e dei muretti di contenimento che ancora esistono delle antiche vasche nelle quali il minerale veniva lavato.
E poi ti giri e vedi uno specchio scintillante, e ti ci vuole un po' per capire che quello è il mare, e che quella montagna azzurra che ci vedi galleggiare dentro è l'Isola D'Elba.
Naturalmente non è tutta natura incontaminata, sia chiaro.
Come per  la vicina Larderello, qui il vapore geotermico è stato ampiamente sfruttato per la produzione di energia elettrica - e direi che va anche parecchio bene - e certamente trattandosi di vapore endogeno,  si sta parlando di un fluido che usura molto i macchinari, e la ruggine la fa da padrone, ma credeteci, non si tratta di incuria.
Del resto l'economia ed anche la vita di questi piccoli paesi dell'entroterra grossetano - o pisano, questa è una zona di confine - si basa proprio su queste produzioni, e non si può fare troppo gli schizzinosi.


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domenica 7 gennaio 2018

TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SU MEZZANA (E NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)

La Mezzana di cui parliamo è quella di Prato.
Siamo abituati a non considerarla un borgo, ma semplicemente il luogo dove è stata costruita l'uscita di Prato Est della A11.
Ed in effetti, Mezzana non dà l'impressione di avere una storia dietro di sè. 
Camminandoci nel mezzo, come abbiamo fatto noi, ci si ritrova nel mezzo a strade piene di palazzoni anni '70, particolarmente alti rispetto alla media di Prato.
Ed è proprio in questo periodo di crescita tumultuosa (e a volte anche piuttosto disordinata) della nostra città, che Mezzana è diventata quello che è oggi.
Infatti da allora non è cresciuta molto di più; si è solo evoluta, ed in certo senso nobilitata, aggiungendo alle strade di villette e di palazzoni, anche il centro espositivo di arte contemporanea "Luigi Pecci" e, a delimitarne i confini, quello che è stato per molto tempo il salotto buono della città, Viale della Repubblica.
E invece, se si ha un po' di occhio, e voglia di fare due passi, si possono trovare tesori inaspettati.
Procedendo per le strade della parte residenziale, non si fa fatica ad identificare le villette anni '50 (costruite su un piano rialzato, per permettere di avere al piano terreno il proprio laboratorio artigiano); quelle anni '60 (con le caratteristiche rifiniture geometriche a mattoncini) o addirittura quelle anni '30 (dai balconcini rotondi con la balaustra in pietra o cemento).
Se poi si vuole risalire indietro nel tempo, in questa "villa"pratese, che già dal nome si capisce che stava nel mezzo - mediana alla valle del Bisenzio -  ma forse sarebbe più giusto dire che era una "via di mezzo", e allora magari si capisce che poteva riferirsi ad una strada che magari portava da un luogo all'altro, senza che ci fosse bisogno di sapere da dove a dove!
Beh, ci siamo forse un po' persi, in questa via di mezzo...
Torniamo alle nostre costruzioni storiche.
Senza andare molto lontano, sulla via Ferrucci, in mezzo a quei palazzoni troppo alti di cui parlavamo prima, troviamo una costruzione che si capisce subito essere molto antica.
E' il Molino Caciolli, che era di proprietà dello Spedale della Misericordia e Dolce già dal 1367, e che la famiglia Caciolli ha gestito ininterrottamente dal 1652 sino al 1982, quando la gora che lo alimentava è stata deviata, causandone la definitiva chiusura.

Dopo un lungo periodo di doloroso abbandono, il mulino è stato riadattato ad abitazione privata, anche se sul sul angolo, non manca la caratteristica indicazione del comune - in marmo bianco e verde -  che lo identifica come costruzione storica.
Addentrandosi nelle stradine più antiche, ci troviamo a percorrerne una dal nome affascinante: via dell'Agio, dove troviamo, risalente al XIV secolo, Villa Martini.

E' un edificio dall'aspetto a dir poco pittoresco: si tratta di una casa di abitazione, ma l'imponente merlatura-  aggiunta alla fine del XV secolo, proprio dalla famiglia Martini, che l'ha posseduta per secoli - la fa sembrare più un castello fortificato, che una villa ci campagna, quale in effetti è.
Infatti non è certo in posizione tale da difendere un bel niente, nel mezzo ad un pianura come è situata.  Non conosciamo la storia - non abbiamo trovato più di due righe in tutto il web - ma sembrerebbe che questi Martini fossero dei simpaticoni che volevano farsi notare, più che altro.
Accanto, separata da alcune casette e da un cimitero che ha la caratteristica di sorgere nel centro del paese, senza un metro di quella che da bambini conoscevamo come "zona di rispetto" e che impediva la costruzione di edifici di abitazione accanto ai cimiteri, sorge la chiesa parrocchiale, dedicata a San Pietro.

La chiesa non è antica: risale al 1939, e la sua storia merita di essere raccontata perchè certe cose, a farle adesso, si verrebbe messi in croce a testa in giù.
Nello stesso sito c'era una bella chiesa a tre navate, risalente al 1500.
Il parroco di allora, don Pio Vannucchi, nome noto in città, e a cui è dedicata una strada, decise di abbatterla  nel 1937 per costruirne una più grande, in previsione di quello che già si prevedeva essere lo sviluppo futuro della zona.
La chiesa fu costruita con il contributo di tutto il popolo di Mezzana, e fu consacrata il 17 giugno del 1939 (un gran brutto periodo, in verità...), e gli affreschi che ci sono dentro, fatti da Leonetto Tintori, raffigurano personaggi della Mezzana dell'epoca.
Girando invece nella zona intorno al Museo Pecci, ci si imbatte in un piccolo e incredibile gioiello, quello del minuscolo oratorio di Sant'Andrea a Tontoli.
Non si trova per caso, bisogna cercarlo, perchè è nascosta tra case di abitazione, questa piccola chiesa romanica del XII secolo, recentemente restaurata, costruita tutta in pietra alberese, e un con piccolissimo campanile a vela, a filo di facciata.
Vi consigliamo di andarla a vedere di sera, perchè è illuminata in modo veramente suggestivo.

Noi siamo rimasti incantati a vedere questa piccola facciata, che somiglia a un piccolo viso un po' grinzoso, incastonato tra le case, e che ti guarda come a dirti : "io ce l'ho fatta, sono ancora qui, dopo otto secoli, chissà che cosa rimarrà invece di tutto quello che mi circonda".


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