domenica 27 dicembre 2015

ANCORA UNA PERLA DEL PISANO: BUTI

Immaginiamo che il pisano sia una collana di perle: possiamo farlo perchè già abbiamo parlato di tante e tante di queste perle: Marina di Pisa (link); due borghi di Palaia (link); Tirrenia (link); la pineta del Tombolo (link); il trasmettire di Coltano (link).
E questi sono solo alcuni esempi!
aggiungiamone un'altra, piccola, deliziosa e carica di storia e fascino senza pari:
Buti, ai piedi del Monte Serra.
Il nome è una volgarizzazione del termine latino per "pascolo di buoi"; questo perchè  il luogo era particolarmente favorevole a questa attività, in una piccola, incantevole valle, circondata completamente dai Monti Pisani.
Con il tempo, l'economia della zona si è evoluta  basandosi in maggior parte sulla produzione di olio, un IGP rinomato  per la sua delicatezza e dolcezza.
Castel Tonini, nucleo originario del Borgo, risale al X secolo; prima di allora c'era solo la torre di avvistamento, e solo  in seguito furono edificate le prime case di abitazione a ridosso del Castello, che costituisce tutt'ora il nucleo più antico del paese.
A Buti c'è anche una villa Medicea - dopotutto i Lorena, che ereditarono lo sterminato patrimonio immobiliare dei Medici, non avevano torto a deplorare i costi che il mantenimento di tutte queste ville comportava - edificata nel XVI secolo, sulle fondazioni di una precedente fortezza. Sua caratteristica è il giardino terrazzato secondo i vari livelli dell'abitazione:  cantina, primo e secondo piano.

Una particolarità interessante:
In un paese così piccolo, ci sono ben due teatri.
Infatti, nel periodo Mediceo e Lorenese, con la raggiunta pace tra Pisani e Fiorentini, ci fu un vero e proprio fiorire di iniziative - adesso diremmo - culturali: un gruppo di famiglie benestanti si riunì nel gruppo "degli accademici" e fece costruire a proprie spese il Teatro "Francesco Di Bartolo", dove Francesco è il nome, Di Bartolo il patronimico, mentre il cognome sarebbe "Di Buti" perchè indica la provenienza della famiglia, originaria del borgo.
Infatti Francesco di Bartolo era nato a Pisa: è noto per essere stato il primo commentatore della Divina Commedia di Alighieri.

E' un tipico teatro ottocentesco, con la pianta a ferro di cavallo dei teatri all'italiana,  e si ispira al Teatro Alla Scala di Milano, sia pure in dimensioni assai ridotte.
I palchetti erano di proprietà privata, ognuno apparteneva ad una famiglia dell'aristocrazia locale, ed infatti l'ingresso a questo teatro era vietato al popolo!
Purtroppo, in epoca post-unitaria il teatro aveva perso gran parte dei suoi frequentatori, e quindi della sua importanza. 
Fu adattato a cinematografo, ma poi fu chiuso nel 1971.
Solo nel 1977 fu acquistato dal comune di Buti, che lo ha restaurato e restituito alla vita e all'arte. Adesso è un apprezzato teatro d'avanguardia.
Di fronte all'aristocratico teatro, gli abitanti di Cascine di Buti - quindi il popolo, escluso dagli spettacoli che vi si tenevano - pensò bene di costruire un teatro alternativo, il Cinema Teatro Vittoria.

Sembra una bella storia, ma la struttura è piuttosto recente, risale al secondo dopoguerra dall'associazione Combattenti e Reduci.
Comunque la contrapposizione tra teatro aristocratico e Teatro del popolo è piuttosto carina!
Anche per il Teatro Vittoria, però, inizia la decadenza, che si risolve solo nel 2004, quando il Comune di Buti lo acquista e lo restaura, rimettendolo in funzione.
Si tratta di una struttura piuttosto piccola anche perchè la galleria è stata eliminata, utilizzata per una sala polivalente, dove si possono tenere riunioni e piccoli meeting.
Comunque una realtà assolutamente dinamica, per un borgo di così ridotte dimensioni.
Molto bella è la Pieve di San Giovanni Battista,la principale delle chiede di Buti, esistente fin da X secolo. 
Le tracce dell'antica chiesa romanica sono quasi inesistenti, mentre l'attuale aspetto barocco si deve al restauro iniziato nel 1607. 
Nel 1910 la chiesa fu ampliata, senza tuttavia toccare la facciata.

Quindi tante cose carine, ma a nostro avviso  la strada principale del paese ha che ha un aspetto un po' triste, con muri sbrecciati e diverse case cadenti, mentre per il resto l'impegno si vede, ed è notevole.
C'è una graziosa piazza, il fiume - il Rio Magno - è ben tenuto, Castel Tonini è stato restaurato e valorizzato. La villa Medicea non è sempre visitabile, ma sappiamo che questa è una pecca di quasi tutte le ville Medicee, quindi...non conta.
Insomma, fateci una visitina e comprate una bottiglia d'olio, perchè merita.

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domenica 20 dicembre 2015

LA ROMANTICA TORRE DEL LAGO PUCCINI

Il lago è il luogo romantico per eccellenza.
Quanti romanzi abbiamo letto, in cui l'eroina veniva imprigionata nell'isola sul lago in tempesta, mentre il suo amato sfidava le onde sulla fragile barchetta per liberarla dal perfido signorotto, che voleva attentare alla sua virtù?!
(ok, nessuno... ma come esempio calzava a pennello)
Se poi al lago ci abbiniamo una giornata piovosa e il Re del melodramma romantico, Giacomo Puccini, allora - come si dice - siamo a dama.

Torre del Lago Puccini è una frazione del comune di Viareggio. 
Con una eccezionale lungimiranza, nel 2004 e quindi in tempi non sospetti, ha rifiutato l'opportunità di diventare comune autonomo, i suoi abitanti rispondendo no quasi al 60%,  al referendum popolare che si tenne quell'anno sull'argomento.
Eccezionale lungimiranza, dicevamo, perchè al momento attuale i comuni tendono ad unirsi - per aumentare le risorse in un momento di magra - piuttosto che a dividersi per mere questioni di campanile.
Per qualche strano gioco del destino, siamo venuti a Torre del Lago sempre in giornate piovose, o comunque senza sole. Spesso in autunno, quando le acque del lago sono color piombo, e solo le rade gocce di pioggia, cadendo, muovono l'immobile superficie. Gli uccelli palustri planano a stormi nel cielo grigio, disegnando strane figure geometriche.
Questo è il lago Massaciuccoli, per noi.
Una sola volta, al seguito di un raduno motociclistico, ci siamo venuti in piena estate, in una bella giornata di sole.
Niente foglie morte lungo il viale, ma tanto sole, ambulanti che vendevano retine che contenevano formine, un secchiello e una paletta; villeggianti sbracati e il lago di un glorioso azzurro, che rifletteva il blu del cielo.
No..proprio non c'eravamo....
Siete mai stati a vedere un'opera lirica nel teatro pucciniano all'aperto? 
E' un'esperienza indimenticabile. Quando ci si siede al nostro posto, nuvole di zanzare e moscerini volano impazziti intorno ai giganteschi fari che illuminano le gradinate,  e si teme seriamente  per l'estetica, il giorno dopo, delle proprie gambe, divorate dai milioni di pappataci svolazzanti.

Però, al momento in cui i fari in platea si spengono, e il direttore d'orchestra dà l'avvio all'overture, miracolo! I pappataci spariscono, e ci si gode la magia dello spettacolo - in uno scenario assolutamente incomparabile - in relativa sicurezza.
Poi, magari, i moscerini e le zanzare si spostano tutte sul palco, attirate irresistibilmente dai fari da 10.000 watt che lo illuminano.
E i cantanti rischiano ogni sera lo shock anafilattico...
Da pochi anni, grazie  alla grande dedizione della nipote del Maestro, la Villa Puccini è stata riaperta al pubblico.

Arredi originali, foto d'epoca, spartiti autografi, fanno parte delle memorabilia del Maestro. Ma tutto è stato ricreato con tanta grazia, da non far pensare troppo ad un museo, ma alla vera, romantica casa dove Puccini abitava e dove amava - ispirato dalla bellezza del luogo - comporre le sue pagine più belle. 
Si tratta di una villetta - non è troppo grande - con un piccolo giardino, probabilmente quello che rimane dopo la costruzione della strada.
Purtroppo sono aperte al pubblico solo le stanze al piano terra, dove si può ammirare anche la spettacolare cappella, fatta costruirre e decorare dal figlio, dove è sepolto il Maestro.
Purtroppo, all'interno della villa non è permesso scattare foto, altrimenti  avremmo voluto farvi ammirare la stanza che ci ha più emozionati.
Forse quella con il piano verticale, e il tavolo di quercia - fatto costruire su misura - dove scriveva gli spartiti? 
No... quella dove Puccini si vestiva per andare a caccia, e che presenta, in delle teche, i suoi fucili personali, gli abiti e gli stivaletti che indossava, e foto di come era il lago di Massaciuccoli e la sua palude ai primi del '900.
Era sicuramente un luogo molto diverso da quello che vediamo oggi, che la palude è stata quasi completamente prosciugata.
Il lago è molto diminuito in estensione, anche rispetto ai tempi in cui il maestro lo  viveva e lo ammirava; come in molti altri casi la civiltà e la cultura palustri, che hanno dato da vivere a generazioni e generazioni - vedi il link di Bosco Tanali - è non solo scomparso, ma se ne è perso completamente la memoria. Eppure sono passati si e no cento anni, da quando Puccini stesso cacciava le anatre selvatiche in questi luoghi.
Ma - ciliegina sulla torta - alla nostra rappresentazione romantica del luogo manca ancora una cosa: la Torre da cui la località prende il nome: eccola, proprio sulla riva del lago. Fa parte del complesso di villa Orlando - che noi si sappia non visitabile - ed è detta Torre di Giunigi.

Si può ammirare in tutto agio da una terrazza "al lago" - per la verità piuttosto bruttina - ed il suo aspetto medioevale è talmente marcato, da far pensare ad uno di questi finti ruderi medioevali, che i ricchi signori usavano farsi costruire nei giardini nell'800 romantico.
Invece risale al XV secolo.
Il nome di Puccini fu aggiunto al toponimo della località il 21 dicembre 1938.
Sempre a proposito di romanticismo, niente è più adatto di questa statua, dedicata ad un cane randagio che ha abitato da queste parti per parecchi anni, e che, pur non avendo un padrone, è stato nutrito e alloggiato un po' da tutti gli abitanti della zona, che sono stati ricompensati del loro buon cuore dall'affetto di questo cane. 


Quando poi è morto, rimpianto da tutti, è stato deciso di dedicargli questa statua in bronzo, che ci ha fatto luccicare una lacrimuccia negli occhi.


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domenica 13 dicembre 2015

LA MISTERIOSA TORRE DI GRIGNANO

A volte i tanto bistrattati siti istituzionali, sono la migliore - anzi, l'unica - fonte che noi, curiosi delle nostre zone, delle nostre tradizioni e memorie, possiamo consultare.
A Grignano esiste una "via delle Badie", che si conclude con una imponente doppia torre merlata, in pietra e muratura -  adesso abitazione privata - con accanto una bassa costruzione, sempre nella tipica pietra bianco-grigia della zona.

Anziani della zona, interpellati al proposito, ci hanno riferito che la costruzione bassa era semplicemente "la casa del fattore", ma non hanno saputo darci notizie circa la destinazione d'uso della doppia torre.

Da queste parti ci si riferisce a questa costruzione, appunto come "la torre", che sino a una cinquantina di anni fa, costituiva una specie di baluardo verso una zona considerata desolata e selvaggia, conosciuta in zona come "il Lonco".
Sia pure attraversato, verso la metà degli anni '60, dal nuovo tracciato della A11 (vedi link della declassata), questo luogo non era una campagna propriamente detta, nel senso che non era intensamente coltivata.
Nella nostra memoria, ricordiamo interi campi di camomilla, che coglievamo e facevamo seccare,  per poi bersela nell'inverno
Certo, c'erano campi e poderi, ma nel linguaggio locale "Lonco" designava un luogo disabitato, quasi abbandonato e anche vagamente e misteriosamente pericoloso. 
Era assai sconsigliabile avventurarsi nel Lonco durante una notte di nebbia, per esempio (anche perchè le gore a quei tempi erano ancora scoperte, e qui ne passava una tra le più importanti, ed il rischio di caderci dentro non era da sottovalutare).
Infatti, avevamo pensato che potesse essere stata una torre di avvistamento - e certamente lo è stata, nei suoi tanti cambi d'uso.
Adesso il luogo non è molto cambiato: è sempre un luogo desolato, perchè è una zona industriale/artigianale, con scarse abitazioni, ed in più attraversata dall'ingombrante mole dell'autostrada A11.
Dopo una lunga e infruttuosa ricerca, che ci aveva scoraggiato un po', ci siamo imbattuti quasi per caso nel sito del comune di Prato, dove abbiamo finalmente trovato quello che cercavamo:
La Torre è una Badia, anzi: visto che le torri sono due, Le Badie, da cui il nome della strada, e anche della zona che si chiama tutt'ora così.
E le badie non erano altro che eremi, fondate dai monaci che nel XI° secolo, sull'esempio del fondatore della abbazia (quindi della badia)  vallombrosana Giovanni Gualberto, venivano fondate un po' dappertutto, e quindi anche nella zona di Prato, dove venne dedicata a Santa Maria di Grignano.
Le torri hanno subito innumerevoli restauri e cambi d'uso.
L'edificio basso - la casa del fattore nella memoria degli anziani della zona - era molto probabilmente il convento.
Nei pressi delle torri e del presunto convento, c'è una strada che si chiama "via del Lazzeretto". Tutto farebbe pensare ad un ricovero per malati di peste, tradizionalmente situato agli estremi confini cittadini, dove meno esteso potesse essere il pericolo del contagio. 
La sua vicinanza al convento potrebbe essere plausibile, visto che di solito i frati,  (perchè i conventi delle monache di solito sorgevano all'interno della cinta muraria, o comunque nelle loro immediate vicinanze) erano proprio coloro che assistevano i malati, cercando di alleviare le loro sofferenze, sia fisiche che spirituali.
Un'altra chiesa dedicata a Santa Maria a Grignano, sorgeva dove adesso c'è il collegio Cicognini. 
Sappiamo che era una chiesa di una certa importanza, con opere d'arte e sovvenzioni ragguardevoli - niente a che vedere con la povera badia spersa nella campagna - ma questo non bastò a salvaguardarla: quando fu deciso di costruire il Collegio, fu abbattuta senza pietà, e di lei adesso rimane solo questa lapide, affissa al muro esterno del Collegio Cicognini.

Visto lo stimolo a riflettere ,che le pur scarne informazioni del sito del comune di Prato ci hanno fornito, il post potrebbe  intitolarsi anche "mai perdersi d'animo" oppure "diamo fiducia alle istituzioni".

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domenica 6 dicembre 2015

IL PONTE DI ANNIBALE

Se il povero Annibale fosse passato da tutti i posti che riportano il suo nome, avrebbe passato la vita a viaggiare.
E se la sua vita fosse durata per tutto il tempo in cui hanno trovato il modo di dare a dei manufatti il suo nome, sarebbe morto all'età di Matusalemme!
Per esempio, questo Ponte di Annibale, che attraversa l'Arno a Bruscheto - e quindi si trova tra Reggello ed Incisa Valdarno - è sicuramente databile al XII secolo. Se si pensa che Annibale è morto più o meno verso il 183 avanti Cristo, si capisce subito che qui non è passato nemmeno in fotografia (per il semplice motivo che la fotografia non era stata ancora inventata...).
E allora lui che c'entra?
Mah, niente. C'è chi dice che il ponte risale ad epoca romana, e che lui ci sia passato sopra nel 217 A.C., ma la maggior parte delle fonti sembra accreditarlo come un ponte medioevale.

Ed in effetti tutto sembra confermarlo.
E' costruito in uno dei punti di attraversamento più favorevoli in assoluto. Qui il fiume è relativamente stretto, e in questo punto ci sono delle formazioni rocciose - sorta di piccole isole - da dove è stato facile "appoggiare" sopra delle piccole passerelle, facili da realizzare anche senza troppe cognizioni di ingegneria.

Inoltre è poco sopra il pelo dell'acqua, per cui ha resistito indenne a tutte le piene del fiume, opponendo una resistenza all'aqua pari a zero, perchè anzichè contrastarne la forza, se la faceva passare sopra.
Infatti, durante le piene il ponte rimane sotto l'acqua, e non subisce danni.
Inoltre, seguendo il principio che "quello che non c'è non si rompe", non avendo spallette, non c'era pericolo che il fiume se le portasse via...
Ha resistito indenne a tutte le piene, dicevamo, tranne quella del 1966.
Infatti una grossa cisterna trasportata dall'acqua del fiume, si portò via l'arcata principale, e da allora il ponte non è mai stato restaurato.
Anche perchè. diciamocelo chiaramente, non porta da nessuna parte.
Chi mai poteva avere interessa a restaurarlo?
Anticamente portava al mulino di Bruscheto, i cui ruderi sorgono ancora sulla riva destra dell'Arno, e che conserva ancora l'intelaiatura della macina, dove l'acqua scorre velocissima portata lì dall'ancora esistente margone.

Certo, un mulino a quei tempi era un luogo importante, e meritava sicuramente la costruzione di un ponte. Infatti non c'è strada, sulla riva opposta, che giustifichi in altro modo la costruzione di questo ponte; anche se è ragionevole pensare che in tempi passati, l'attuale SS69, che è piuttosto vicina, avesse un altro tracciato, e che magari passasse di qui, oppure un'altra strada tanto importante da giustificare un ponte.
Il tratto iniziale, vicino al mulino, è ancora perfettamente conservato, e calpestare queste pietre ci ha emozionato; sono un po' arrotondate dal passaggio dei carriaggi, dei cavalli, e dell'acqua che ci è passata sopra nei periodi di piena.
E ci ha fatto un po' ridere pensare che questo è uno dei (pensiamo pochi) ponti di cui si possa dire, per giustificare il passaggio del tempo, che l'acqua, anzichè passare sotto i ponti, in questo caso ci è passata sopra.

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domenica 29 novembre 2015

IL SERPENTINO VERDE DI PRATO E IL MONTEFERRATO

Occuparsi di Prato è la nostra principale "Mission", e di conseguenza di tutto ciò che può correlarsi in qualche modo a Prato stessa.
A Prato abbiamo un tipo di marmo particolare, il verde di Prato, altrimenti detto anche "Serpentino".
E' quello con i quale sono state decorate gran parte delle basiliche e cattedrali costruite in "romanico toscano", e che si può vedere un po' dappertutto in zona.
L'ispirazione era troppo bella per lasciarsela sfuggire, anche se confessiamo che quando si parla di geologia, la nostra mente si obnubila, la testa si riempie di bollicine rosa e cadiamo in un sonno profondo, dal quale usciamo solamente dopo ripetute gomitate nelle costole...
Ma una Mission è una Mission, e poi per Prato si può fare anche uno sforzo.
Ordunque.
Il Verde di Prato viene così chiamato per il suo bel colore, che ricorda la malachite, e viene detto Serpentino perchè appartiene alla famiglia geologica delle serpentiniti, formazioni rocciose tipiche degli Appennini, delle quali la definizione esatta è "roccia ultrafemica metarmofizzata".
E'detto anche "marmo di Figline", perchè le cave si trovavano in maggior parte sul Monteferrato, situati proprio in prossimità della (attuale) frazione di Figline di Prato.
Ecco, diciamo due parole anche sul Monteferrato, che molti vecchi pratesi tramandano essere stato un vulcano spento.
Per quel che ne sappiamo potrebbe essere anche vero. 
Per dire la verità non si tratta di un monte, ma di una piccola catena montuosa: sono tre colli disposti in ordine decrescente di altezza, dove il piu' alto - il Poggio Ferrato -  domina la città di Prato, con i suoi 420 metri.
Poi, in direzione della dorsale appenninica, troviamo il Monte  Mezzano (398 metri) ed il più settentrionale è il Monte Piccioli (362 metri)
Sicuramente sono composti da rocce ferrose, inadatte allo sviluppo della vegetazione.
Nella parte bassa, poi, è ricco di argille che hanno alimentato l'industria tessile della zona, fornendo - prima dell'invenzione delle sostanze chimiche - le terre adatte alla follatura dei panni di lana.
Nei primi anni dell'ottocento fu rimboschito con pini marittimi, con l'intenzione di utilizzarli per estrarne la ragia.
Fu un intento lodevole dal punto di vista paesaggistico, ma una pessima scelta per l'ambiente in cui questi poveri alberi sono stati inseriti.
Non sappiamo se l'impresa di estrazione di ragia sia andata a buon fine - ne dubitiamo - ma il terreno su cui questi alberi sono stati piantati, era quanto di meno adatto si potesse pensare per questa specie vegetale.
Se ci si prende la briga di una passeggiata, si vede che gran parte degli alberi sono in sofferenza: sono cresciuti in maniera stentata, sono contorti e radi, ed è una pena vederli tra queste rocce verdastre, o luccicanti di pirite.
Ma torniamo al nostro marmo.
Presenta varie tonalità di verde, che vanno da quelle più pallide, quasi grigie - o addirittura giallastre, tanto da farli prendere il nome di "pietra ranocchiaia" -  al verde scurissimo che tende al blu.
Siccome è una pietra che può essere facilmente lucidata, veniva utilizzata specialmente per intarsi e decorazioni, insieme al marmo bianco di Carrara o alla pietra Alberese, con effetti veramente notevoli.
Nell'ispirazione del Romanico Toscano per le antiche costruzioni di Roma, si era sostituito, con la bella pietra delle nostre montagne, il porfido verde di Grecia che le decorava con i suoi intarsi, e al quale tanto somigliava.
Ebbe poi un lungo periodo di oblio, venendo recuperato solo nell'ottocento, con le sue costruzioni romantiche, ispirate al medioevo italiano.
In tempi più recenti, prima che la sua estrazione cessasse quasi completamente, veniva prosaicamente utilizzato per le massicciate delle strade, come pientra da riempimento. Che fine ingloriosa!
Il suo utilizzo è sempre stato puramente decorativo e molto difficilmente veniva utilizzata per la costruzione di interi edifici: noi siamo riusciti a trovare solo le tre absidi  della Pieve di Sant'Ippolito in Piazzanese, nella frazione - appunto - di Sant'Ippolito di Galciana.
A quanto sappiamo si tratta di una costruzione unica nel suo genere.

domenica 22 novembre 2015

FAENZA GIOIELLO DI ROMAGNA

Faenza è al centro della Romagna, ed è una città molto antica.
Sapevamo che i suoi abitanti, oltre che faentini, si chiamano anche manfredini, dal nome del casato che ha a lungo avuto signoria sulla zona.
Quando eravamo piccoli lo sentivamo dire : "la moglie del tale è manfredina" "babbo che vuol dire?" "vuol dire che è di Faenza".
Queste sono cose che segnano la psiche di un bambino, sinceramente...
A parte queste facezie, essendo alla confluenza del fiume Lamone, e l'incrocio tra la via Salaria e la via Emilia, è stato un centro commerciale tra i più fiorenti, anche in epoca pre-romana (la Salaria non si chiamava Salaria, la via Emilia si chiamava in altro modo, ma sempre all'incrocio tra due importanti vie di comunicazione era situata, dopotutto).
Nel VII secolo eresse delle mura per difendersi dai longobardi, e nel 1164 ospitò per diverso tempo Federico Barbarossa.
Cambiò bandiera diverse volte, perchè dopo la visita del Barbarossa aderì alla lega lombarda e divenne guelfa. E rimase così per un po' perchè le cronache citano che nel 1239 Faenza era l'unica città guelfa di Romagna.
In epoca rinascimentale divenne famosa per la produzione di maioliche che esportava in tutto il mondo. Tanto che in inglese maiolica si dice "faience".
Entrò a far parte della Romagna Pontificia, dopo la morte dell'ultimo Manfredi, intorno al 1509.
Di genitori faentini era Evangelista Torricelli, nato a Roma ed inventore del barometro ( c'è una piazza con un grazioso parco e una sua statua al centro).
Nel 1890 è nato a Faenza Pietro Nenni, uno dei padri della repubblica, e nel 1912 Benigno Zaccagnini, esponente di spicco della Democrazia Cristiana di altri tempi.
Nella cattedrale abbiamo visto questo curioso monumento funebre, che la gente le posto chiama "Jacmena".
Vabbè, detto questo come quadro storico generale, vogliamo dire che Faenza è una città molto graziosa, con bellissimi parchi, grandi strade alberate e tantissima gente che gira in bicicletta.

Il centro del centro storico (bel pasticcio, eh?!) sono due grandi piazze rettangolari, piazza della Libertà e Piazza del Popolo, che non sono divise da niente, sembrano una sola, enorme piazza lunghissima e circondata dai classici portici delle città padane.

E come tutte le città padane, abbiamo trovato anche in Faenza quella particolarità che non sappiamo dire.
Saranno le biciclette, che da queste parti non mancano mai, e con le quali tanta gente si sposta da un capo all'altro della città.
Certo, è facile... qui è tutta pianura, ci si sposta bene in bici. E' facile essere ecologisti in una città padana, provate a farlo a Roma, che è su sette colli, e poi ne riparliamo!
Ma è anche il rapporto che queste città hanno con il sole, con il bel tempo, con lo stare fuori all'aria.
Eppure il sole batte forte anche qui, ma qui il sole si va a cercare: i bar con i tavolini all'aperto non si contanto, si sta fuori all'aperto in tutte le stagioni, anche in gennaio. Magari con un bello spritz davanti - anche se sono le dieci di mattina, come abbiamo visto a Treviso - ma non si rinuncia mai a stare fuori, all'aria, al sole.
Invece da noi,  che siamo a sud dell'Appennino,  il sole lo temiamo, cerchiamo piuttosto di ripararci da sole, anzichè cercarlo. Anche da noi ci sono i bar con i tavolini all'aperto, ma sono strutture coperte, con i ventilatori sempre accesi, con grandi tende che tendono ad oscurarne la luce.
Forse perchè qui la nebbia in inverno è opprimente, chissà.
Però fa un bell'effetto, perchè qui tutto è chiaro, arioso, luminoso. I parchi sono ombrosi e pieni di vegetazione, laghetti, animali.

Ogni vola che attraversiamo l'Appennino e visitiamo una città della pianura padana, il nostro cuore si riscalda.

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domenica 15 novembre 2015

IL PONTE BITOSSI A CAMAIONI

Camaioni è una frazione di...un sacco di comuni.
Attraversata dal fiume Arno, sulla sua riva sinistra, che si distende lungo la SS67, al confine con il comune di Lastra a Signa,  è frazione del comune di Montelupo Fiorentino.
Sulla riva destra dell'Arno, la frazione si chiama La Nave di Camaioni, ed è a sua volta suddivisa tra il comune di Carmignano (nella sua parte a monte) e il comune di Capraia e Limite (nella sua parte a valle).
Inoltre è suddivisa tra le province di Firenze e quella di Prato.
Questa è certamente la sua caratteristica peculiare, ma non è tutto qui.
Nella frazione la Nave - a monte, e quindi nel comune di Carmignano - è nato il ciclista Franco Bitossi, famoso negli anni '60 e '70 - oltre che per le sue vittorie - per essere stato soprannominato "cuore matto".
Questo perchè soffriva di tachicardie, che spesso lo hanno costretto a ritirarsi dalle corse alle quali partecipava.
ok, abbiamo parlato di Bitossi e di Camaioni.
E il ponte?
Abbiamo detto che Camaioni si trova metà sulla riva sinistra e metà (la Nave) sulla riva destra: nel mezzo ovviamente passa l'Arno, e sino al 1976 le due rive comunicavano tra di loro solo con il passaggio di barche.
La leggenda vuole che il ponte che sorge attualmente tra le due rive - è che è a tutti gli effetti un ponte ciclabile, perchè è ad una sola corsia - sia stato costruito proprio per permettere al ciclista Franco Bitossi di allenarsi anche in pianura, percorrendo la SS67.
Ovviamente è una leggenda, perchè Bitossi non aveva certo bisogno di allenarsi a casa sua: si sarà allenato dove lo portava la squadra per la quale correva, no?!
Quello che è certo è che il ciclista si è notevolmente prodigato perchè il ponte venisse costruito - tra il 1972 e il 1976 - e certamente il suo nome e la sua fama hanno avuto il loro peso nella costruzione di questa strana opera: un ponte ad una sola corsia, che va a finire in una strada con un gomito a 90°, e che poi porta ad un sottopasso ferroviario tanto stretto che si percorre a senso unico alternato, e tanto basso da permettere solo il passaggio di autovetture e modesti furgoncini.
Con il tempo, tuttavia, ha dovuto sostenere il traffico crescente tra Carmignano e Montelupo, e tra Prato e Empoli, tanto da diventare una direttrice assai importante, specie per chi deve raggiungere la Firenze-Pisa-Livorno.
Per chi viene da Carmignano, il ponte porta ad un tratto bello e tranquillo della SS67 Toscoromagnola, ma per lo sprovveduto turista - straniero e non - che venendo da Montelupo imposta sul navigatore la strada più breve per Carmignano sono guai seri! dopo il claustrofobico sottopasso sotto la ferrovia, il gomito a 90° non dà nessuna visibilità su chi percorre il ponte in quel momento, e quello di trovarsi di fronte due fari corrucciati che vengono in direzione opposta, è più di un rischio.
Dopodichè ci si trova davanti una salita con pendenza del 15%.
Abbiamo visto automobilisti di provata esperienza, mettere le quattro frecce e piangere...




domenica 8 novembre 2015

IL SOGNO INDUSTRIALE DI CRESPINO SUL LAMONE

Se si giocasse a: "colloca il nome della località sulla carta geografica dell'Italia " - vi assicuriamo che questo gioco,  in rete , esiste - Crespino sul Lamone sarebbe uno di quei nome che sarebbero in pochi a posizionare esattamente, giusto quelli che abitano da quelle parti, perchè non è certo un posto molto conosciuto. 
E' amministrativamente una frazione del comune di Marradi.
Tuttavia ha una storia importante da raccontare.
Prima di tutto è stato teatro - come purtroppo molti posti da quelle parti - di un efferato eccidio della popolazione civile da parte delle truppe tedesche nel 1944, dove ben 42 tra donne e bambini - nonchè l'anziano parroco - furono trucidati il 17 luglio.
Un piccolo sacrario, sorge sulla riva destra del fiume Lamone, a ricordo della strage.
Ma noi, curiosi come siamo di archeologia industriale, volevamo parlare della vecchia fabbrica Kalter, che produceva termoconvettori.
La fabbrica aprì i battenti nel 1962, quando l'Ing. Donati di Faenza rilevò i locali di una preesistente fabbrica di tannino che era situata proprio in prossimità della cascata in località Valbura.
Era proprio la vicinanza di questa cascata, che permetteva la produzione di energia elettrica, a rendere appetibile aprire un'attività industriale in un paesino apparentemente insignificante come questo.
Certo, la logistica doveva essere complicata, ma a quei tempi i camion erano più piccoli, l'autostrada A 1 era ancora di là da venire, e comunque Faenza era a soli cinquanta chilometri.
Del resto, la località era sede di opifici sino dal 1500, perchè prima della Kalter, c'era la fabbrica di tannino di cui dicevamo - che era doppiamente favorita, perchè oltre allo sfruttamento della cascata, utilizzava anche i castagneti della zona, materia prima per l'estrazione del tannino - prima ancora una fabbrica di calce, e per cominciare, ovviamente un mulino.
La fabbrica dava lavoro ad una ventina di persone, il che voleva dire a venti famiglie, il che significa che per la zona era una realtà tutt'altro che trascurabile.
Non sappiamo quando la fabbrica ha chiuso, ma se si digita "Kalter" su google, la ricerca dà, tra le prime proposte, una scheda con tanto di numero di telefono, per cui viene logico pensare che sia stata chiusa in tempi già digitali, quindi abbastanza recentemente.

Il che non significa che sia stata chiusa ieri: i locali non sono certo in ottime condizioni, ma sono stati riutilizzati in parte come ricovero di macchine agricole.

La fabbrica sorge proprio sotto un'ampia curva della ferrovia faentina, di cui abbiamo parlato in un altro post (link) e percorrendo la quale,  si gode il panorama migliore del vecchio opificio.

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domenica 1 novembre 2015

PONTE D' ERCOLE anche detto del Diavolo

Avete fatto caso che quando ci troviamo di fronte ad un ponte antico che abbia forme o dimensini fuori dal comune e subito spunta fuori una leggenda che ne attribuisce l' opera al Diavolo ?
Ma se nei casi del ponte della Maddalena di Borgo a Mozzano o  del ponte Gobbo di Bobbio, fra i più noti a fregiarsi dell' appellativo " del diavolo", l' opera dell' uomo è evidente per i  materiali usati,  nel caso del ponte d' Ercole si rimane  perplessi: per i primi si è usato malta e pietre, nell' altro caso, invece ci troviamo di fronte ad un monolite di arenaria di una trentina di metri!

Localizzato nel parco del Frignano vicino al paese di Lama Mocogno, lo si raggiunge lasciando  la statale 12 e percorrendo una strada asfaltata sino ad un parcheggio; una volta lasciato il mezzo, si imbocca un facile sentiero che in un quarto d' ora ci porta al ponte. Noi lo abbiamo visto in estate con la vegetazione rigogliosa del sottobosco che lo mascherava un po'  ma ci immaginiamo che in inverno, con gli alberi spogli, l' effetto scenografico sia ancora più impressionante.

L' area che circonda il ponte è stata frequentata dall' uomo dalla preistoria  fino al medioevo - come  è stato testimoniato da scavi archeologici - che hanno evidienziato la sacralità del luogo generazioni di persone hanno frequentato la zona, che era riconosciuta come sacra.
Purtroppo, negli ultimi anni, la zona è stata frequentata dai soliti teppisti, che non hanno perso l'occasione di deturpare l'antica pietra con frasi stupide ed idiote.





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domenica 25 ottobre 2015

UN POSTO FUORI DAL COMUNE: CIVITELLA DEL TRONTO

Quella di Civitella del Tronto è proprio una storia particolare, di quelle che ci piacciono per due motivi: uno, che una storia dimenticata - abbiamo un'insana passione per le cose dimenticate - e l'altra... boh, l'altra non ci viene in mente; forse è solo la passione per le cose dimenticate, moltiplicata per due.
Beh, dimenticata lontano da qui, perchè qui è come essere ancora sotto il regno dei Borboni.
Perchè Civitella del Tronto (provincia di Teramo) è stata l'ultimo baluardo del regno delle Due Sicilie, e la guarnigione si arrese ai soldati "piemontesi", due giorni dopo che Vittorio Emanuele I, fu nominato Re d'Italia.
Si, due giorni dopo, non due giorni prima - che sarebbe stato già abbastanza!
Questo voleva dirci crederci per davvero.
Anzi, ci credono ancora: pensate che non è infrequente trovare  nei negozi, il ritratto di Franceschiello, ovvero Francesco II, l'ultimo dei Borbone, a cui la fortezza rimase fedele fino oltre l'evidenza.
Del resto gli abitanti di Civitella sono famosi per la loro fedeltà: prima di far parte del regno Borbonico, la città resistette eroicamente nel 1557 all'attacco del Duca di Guisa,e per questo fu esentata dal pagamento delle tasse per 40 anni, oltre ad essere appellata come "Fedelissima" dal Re di Spagna.
Come se mancassero le attrattive per questo borgo, al suo interno si trova la strada più stretta d'Italia, la "ruetta", un ripida e strettissima scalinata che porta verso la Fortezza.

Un discorso a parte merita questa famosa Fortezza, che sorge sullo sperone roccioso che domina la città.

Quando siamo andati a visitarla, pensavamo di trovare il solito altipiano, con qualche vecchia fortificazione e qualche metro di pavimento antico.
Invece abbiamo visto una vera fortezza aragonese, ottimamente restaurata - sempre pensando che per un lungo periodo ha rappresentato la cava di pietra della zona - e ben presentata.
Superfluo dire che dalla fortezza, situata a circa 600 metri sul livello del mare, si gode di un panorama assolutamente mozzafiato, che va dai monti Sibillini al mare, passando da una campagna che sembra disegnata, tanto è bella.

La fortezza era un caposaldo del Regno delle Due Sicilie, essendo Civitella al confine con lo Stato della Chiesa.
Rappresenta una delle opere di ingegneria miliare più importanti dell'Italia meridionale, ed è certamente una delle più estese d'Europa.
La zona è sempre stata di confine; cambiava il nome degli stati, ma di questa fortezza si hanno notizie fin dall'anno mille (cioè quando è stato cominciato a tenere registri scritti, in definitiva) quindi in periodo svevo, ma la fortezza nella sua estensione e potenza, si riconduce alla dominazione degli Aragonesi, nel 1442 strapparono il Castello ai D'Angiò, che comunque avevano dato già un'impronta importante alla fortezza.
Gli Aragonesi svilupparono ed accorparono le varie costruzioni preesitenti in una pianta ellittica che ricopre completamente la sommità rocciosa.

E' realizzata in travertino, la pietra del luogo, e si compone di varie piazze d'armi. camminamenti coperti e scoperti, e di tutti gli annessi necessari al funzionamento di un struttura così imponente: alloggi, cisterne, stalle, chiese, forni per il pane e... celle di punizione come il "Calabozzo del Coccodrilli", una tetra stanza in cui, forse per sdrammatizzarla un po', hanno collocato questa strana statua.

La Fortezza non ebbe sempre un buon rapporto con gli abitanti del paese, se è vero - come è vero - che nel 1495 furono distrutte quattro delle cinque torri, proprio dagli abitanti di Civitella, stufi delle angherie e delle sopraffazioni dei militari.
I Borboni arrivarono nel 1734, sostituendo gli Asburgo, che nel frattempo si erano avvicendati; la fortezza subì grossi danni nel periodo napoleonico, e fu completamente restaurata dai Borboni nel 1820, mantenendo però il proprio impianto rinascimentale.

Come già detto, dopo l'Unità d'Italia la fortezza subì un forte degrado. Solo un centinaio di anni dopo, tra il 1975 e il 1985 fu deciso di recuperarla e restaurarla.
In fondo alla strada dove si trovavano gli alloggi e le stalle, è stato creato un museo delle armi, dove ampio spazio viene dedicato alla cultura borbonica, ed ai suoi confronti con quella "piemontese", e dove quest'ultima ne esce piuttosto malconcia.

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domenica 18 ottobre 2015

IN VIAGGIO SU UNA LINEA FERROVIARIA SECONDARIA

Quando si tratta di cercare cose vecchie e dimenticate, la nostra fantasia si scatena.
Noi che siamo abituati da sempre a muoversi con mezzi propri, perchè che non ci piace dipendere da orari e coincidenze, abbiamo deciso di fare un viaggetto su una linea ferroviaria che è nata secondaria: La Faentina.
Il percorso della Faentina, sarebbe quello più semplice e meno aspro tra i vari valichi appenninici tra Toscana ed Emilia Romagna.
Invece, quando fu inaugurata nel 1893 era già una linea secondaria, superata in importanza dalla Porrettana, inaugurata nella sua intierezza nel 1864, la quale  doveva superare dislivelli assai più elevati, e con pendenza percentualmente superiori, per  una lunghezza complessiva assai simile.
La Porrettana, nata a binario unico, si dimostrò subito inadeguata al suo ruolo di asse viario principale transappenninico.
Si dovette aspettare il 1934 perchè si inaugurasse la ferrovia Direttissima, che con una pendenza assai inferiore, attraversando le valli del Bisenzio e del Setta, portava direttamente a Bologna via Prato, tramite un capolavoro dell'ingegneria di allora come la Grande Galleria dell'Appennino, lunga ben 18.032 metri.
Solo recentemente la Direttissima è stata sopravanzata in importanza dalla Linea Alta Velocità, facendo scendere ancora un gradino di importanza alla Ferrovia Faentina, che sin dall'inizio fu destinata ad un uso prettamente locale e di transito merci.
La Seconda Guerra Mondiale quasi distrusse questa tratta, che era considerata così poco importante che fu riattivata solo nel 1957; e comunque i binari si fermavano a San Piero a Sieve.
Era possibile raggiungere Firenze solo dalla diramazione per Pontassieve, che però era di percorrenza lunga e poco agevole a causa del regresso (cioè dell'inversione di marcia della motrice) necessario alla percorrenza della tratta, che era a binario unico.
Il percorso  completo è stata riaperto, come contropartita richiesta dagli enti locali alla realizzazione della linea ad alta velocità, solo nel 1999.
Comunque si tratta di una linea non elettrificata, e le motrici sono diesel!
In pratica un autobus su rotaie, per condurre il quale c'è bisogno di una patente ferroviaria speciale.

Ma veniamo al nostro viaggio.
Sapevamo che il percorso era poco frequentato, ma quando l'abbiamo percorso noi - ma era agosto - abbiamo visto le carrozze quasi piene, con un certo traffico locale - una fermata o due - che testimonia il suo utilizzo quasi come un tranvia.

Appena usciti dalla Stazione di Santa Maria Novella, il paesaggio si apre in tutta la sua bellezza, portandoci velocemente a Fiesole prima e a Vaglia poi.
Da San Piero a Sieve in poi si comincia ad avvertire la pendenza, e dopo Borgo San Lorenzo le gallerie si susseguono, sino ad arrivare , dopo la stazione abbandonata di Fornello (vedi link) al valico che culmina della Galleria dell'Appennino detta "degli Allocchi" - chissà da dove è venuto fuori questo nome - che rappresenta il punto più alto con i suoi 578 metri, dopodichè si passa da Crespino del Lamone,  e dopo la stazione di Marradi, si entra in Romagna.
Già a Fognano il paesaggio si apre, nelle ampie vallate e nei caratteristici calanchi che ci portano a Brisighella, e, ormai in pianura, a Faenza.

E' questa una piacevolissima cittadina,  di cui parleremo in un post a parte, perchè proprio lo merita.
E' un viaggetto molto carino, e poi qui non si devono fare le corse per prendere coincidenze o cambiare treno. Si va da A a B, e basta.: niente stress quando si sale sulle carrozze, che sono tutte di seconda, ma molto decorose.
Certo, c'è il traffico locale di cui parlavamo prima, ma del resto una linea come questa, che è un autobus su rotaie, vive anche di quello.
E poi nei viaggi in treno la cosa veramente interessante, è la gente: a maggior ragione per noi che, come dicevamo all'inizio, predilegiamo spostarci con mezzi propri - e quindi non siamo abituati a mescolarci a questa varia umanità!
La signora elegante, chiaramente una viaggiatrice abituale, che ha passato tutto il viaggio, quasi due ore, leggendo delle riviste.
Il ragazzo che aveva con sè due scatoloni, uno zaino e vari sacchetti, e che alla fine si è addormentato rumorosamente.
La famigliola con il bambino, la cui carrozzina non passava dal corridoio centrale del treno, e che si sono adattati a fare tutto il viaggio sugli strapuntini pur di non disturbare il pupo.
le turiste francesi un po' troppo poco vestite
le turiste giapponesi con calze, vestito, soprabito, cappello e guanti.
i vacanzieri in bermuda e sandali: euforici  quelli in partenza, un po' seccati,  con le valige al seguito, quelli al ritorno.
Un giovane prete in abito talare, una signora in tailleur e tacchi a spillo, turisti indiani, tutti con un cappellino con la Union Jack sopra, e sui quali ci siamo scervellati un po' per capire il nesso.
Divertente ed istruttivo!




domenica 11 ottobre 2015

IL MULINO DI PISPOLA E IL LANIFICIO ROMEI

Pispola era evidentemente un soprannome.
In realtà si chiamava Luigi Biagioli, e , altrettanto ovviamente, faceva il mugnaio.
Altrimenti che ci stava a fare, nel 1849, in un mulino?
La data importante è proprio questa, 26 agosto 1849.
Siamo a Cerbaia, nel comune di Cantagallo (PO).

Qui, il Pispola ospitò Giuseppe Garibaldi,con il suo luogotenente, in fuga dalla Romagna; da qui fu trasportato tramite un carro a Vaiano,e poi da qui a Prato, alla Stazione di Porta al Serraglio, dove potè continuare la sua fuga verso la Maremma.
Il povero Pispola non sapeva chi erano i due sconosciuti che si erano fermati lì per ripararsi da un temporale, e che lui si era solo offerto di ospitare.
Lo sapeva invece l'ingegner Enrico Sequi, direttore dei lavori per il rifacimento della strada maestra della vallata (l'attuale SS 325), che passava di lì per andare a caccia nei boschi.
Come dice la lapide infissa sopra alla porta - il mulino è tutt'ora abitato - la sua guancia era solcata dall'ambascia per la perduta Annita e poi : "quindi impari chi legge a non disperar mai per la patria".
E va beh, che dovevano scrivere su una targa commemorativa in marmo?!

Ma torniamo al nostro mulino, che è di costruzione databile intorno al XVII secolo.
Certo è diventato famoso per questo motivo, e perchè il Pispola, dopo aver passato i suoi guai per aver ospitato l'Eroe dei due mondi, per lo stesso motivo al momento dell'unità d'Italia, fu largamente ricompensato.
Tanto che potè mettere su una fabbrica tessile, alimentata dalle stesse acque che gli permettevano di svolgere il suo lavoro di mugnaio.
Erano le acque del Gricigliana che in quel punto si immettono nel Bisenzio; interessante esempio di due attività produttive che ricevono la forza motrice dallo stesso margone.
Lo stabilimento tessile è il più antico della Val di Bisenzio, risale al 1866,  ed è passato nelle mani di Cesare Romei nel 1869, che  ne fece un grosso stabilimento, con tutte le lavorazioni: carbonizzo, stracciatura, follatura, filatura e tessitura. Qui, nel 1870 fu installato il primo telaio meccanico del distretto tessile di Prato.
I discendenti di Pispola invece, continuarono l'attività molitoria e facevano anche il pane per gli operai della fabbrica.
Il lanificio dava lavoro a moltissimi operai ed era un fulcro vitale per la vita della Val di Bisenzio.

Non siamo riusciti a reperire la data in cui il lanificio Romei ha cessato l'attività, ma a vedere lo stato dei capannoni, non può essere passato moltissimo.
Sappiamo invece per certo, che il molino e il forno annesso, hanno smesso di funzionare intorno al 1952.


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domenica 4 ottobre 2015

IL DOLMEN DI PIETRA PERTUSA

I Dolmen sono tombe megalitiche, costituite da due o più pietre verticali piantate nel terreno e sormontate da un lastrone orizzontale, in uso presso popoli antichi tra la fine del quinto e la fine del terzo millenio avanti Cristo.
Tipo quelle di  Stonehenge, tanto per farvi capire di che si parla.
Numerosi i ritrovamenti fatti in Europa in partcolare modo in Gran Bretagna, Irlanda, Francia; Germania e penisola Iberica; in Italia le testimonianze più importanti sono in Sardegna, Sicilia e in Puglia.
Anche in Toscana è stata trovata, negli anni '60 del secolo scorso, una di queste sepolture sull' altopiano delle Pizzorne, in una zona chiamata Pietra Pertusa che era sede di un insediamento dei Liguri.
E i liguri chi erano?!  Un popolo pre-romano che abitava sulle montagne - perchè a quei tempi nella valle c'erano laghi e paludi (un ambientino un po' difficile) -  e che hanno avuto contatti con gli etruschi, tanto che sono stati ritrovati, nella stessa area,  dei pezzi di vasellame per così dire "di scambio" e che veniva usato come moneta.
Il sito si presenta invaso dalla vegetazione e il Dolmen, la cui lastra orizzontale si è spaccata (da cui il nome: pertusa significa infatti "spaccata"),  si presenta come un cumulo di massi; questo ci ha reso difficile l' identificazione del luogo - fra l'altro assolutamente non segnalato - ma con un po' di fortuna lo abbiamo trovato e questo ci ha fatto sentire dei veri  Indiana Jones.

Qui è visibile solo il  Dolmen.
Beh, sapevamo che ci doveva essere e quindi lo abbiamo identificato, ma un escursionista che nulla sapeva dell'aerea archeologica, ci sarebbe passato sopra senza manco accorgersene - ma gli altri oggetti ritrovati dallo scavo, sono conservati presso il museo di Villa Giunigi a Lucca.

L' altopiano delle Pizzorne è ricoperto da boschi di castagni, e in estate offre refrigerio ai gitanti, che qui non mancano davvero, e ai fortunati possessori di tante graziose casette situate intorno al prato centrale.
Nei pressi c'è anche una chiesetta, molto carina.

di impianto medioevale, costruita in pietra, e che conserva al suo interno un pregevole crocifisso.


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domenica 27 settembre 2015

ERA IL 1994 QUANDO IL LAGO DI VAGLI FU SVUOTATO PER L'ULTIMA VOLTA...

Vi è mai capitato di rimettere in ordine un cassetto, e di passare le due ore successive a guadare vecchie diapositive? Certo che si.
Anche noi, cercando di rimettere in ordine delle vecchie pellicole, abbiamo messo le mani su un vero tesoro, di cui avevamo dimenticato di essere in possesso.
Infatti, siamo stati tra i fortunati che nel 1994 sono stati a visitare Fabbriche di Careggine, l'antico paese sommerso sotto al lago di Vagli (Lucca), e che dal 1948, anno del completamento della diga, è stato vuotato quattro volte per la manutenzione e la pulizia del fondo.
L'ultima volta, appunto, nel 1994.
Il lago di Vagli - che è un lago ENEL -  è stato formato nel 1947, dallo sbarramento del torrente Edron.
Ha sommerso il paese di Fabbriche di Careggine, un paese fondato nel XIII secolo, e che ospitava, come altri da queste parti, una colonia di fabbri provenienti dal nord Italia. Di queste comunità dedite alla lavorazione del ferro e provenienti dall'italia del nord ne abbiamo già parlato nel post dedicato Fabbriche di Vallico (vedi link) che ha una storia simile (ma i fabbri erano bergamaschi...).
Si trattava di un paese di tutto rispetto, che verso la metà del XVIII secolo era assai fiorente, essendo tra i maggiori centri per la lavorazione del ferro di tutto il Ducato di Modena.
Alla fine dello stesso secolo, con la decadenza della Via Vandelli (vedi link) gli abitanti del borgo dovettero gradualmente dismettere l'attività di fabbri ferrai e dedicarsi alla pastorizia e all'agricoltura. Solo all'inizio del novecento fu costruita una piccola diga sul torrente Edron, per produrre l'energia necessaria alla lavorazione del marmo, nelle vicine cave.
Il progetto di costruire la diga c'era già in epoca fascista, ma fu solamente dal 1947 che fu costruita l'attuale diga.
Fabbriche di Careggine, che contava allora solo 146 abitanti, fu interamente sommerso, e i residenti furono spostati in un villaggio, appositamente costruito a Vagli di Sotto, e che riproduce fedelmente il tessuto urbanistico del villaggio sommerso.
Il lago è l'invaso artificiale più grande della Toscana, ma quando ci siamo capitati noi di recente, era almeno dieci metri sotto il suo livello abituale. Non tanto, tuttavia, da far vedere il campanile della chiesa (sempre che sia ancora in piedi).
Sul lago, posizionato laddove passava l'antica via Vandelli, è situato un ponte a tre arcate, progettato all'architetto Riccardo Morandi.

c'è in costruzione anche un ponte tibetano (!) - ma in cavi d'acciaio, tranquilli - che porta a questo straordinario gruppo di statue, raffigurante il capitano De Falco (quello del:" torni sulla nave, ca@@o") e di Schettino, raffigurato con le orecchie di coniglio (ah,ah). Un paio di metri sotto c'è anche una statua di un coniglio, e una bozza della statua di di Falco.

Un gruppo marmoreo a dir poco sorprendente!

Ma la cosa più interessante sono i ricordi che abbiamo della visita al paese fantasma.
La cosa che ricordiamo maggiormente era il caldo soffocante che abbiamo sofferto.
Era il 1994, quindi in tempi ancora esenti dagli anticicloni africani.
Bisogna però ricordare che ci si trova sul fondo di un lago: solo melma solidificata, un opprimente catino assolutamente privo di qualsiasi forma di vegetazione e senza il minimo alito di vento.

Dopo una lunga strada, da percorrere a piedi sotto un sole martellante, si arriva al paese, straordinario monumento di fango in mezzo ad un paesaggio lunare.
Sembrava un miraggio, ed  infatti la sensazione di trovarsi in un deserto era fortissima!

Le case erano tutte prive del tetto, mentre era ancora in piedi la cupola della chiesa; unica possibilità di godere di un po' d'ombra, ma anche l'unico posto dove il fango non si era solidificato, e quindi comunque assai poco praticabile.


La cosa più straordinaria era tuttavia, l'antico cimitero. Isolato sulla parte opposta di un pendio, e perfettamente riconoscibile nella sua architettura.
Chiudendo gli occhi e concentrandosi un po', si poteva immaginare lo stesso luogo coperto di boschi, con il torrente Edron che scorreva nel mezzo. I fabbri lavoravano e si sentiva il martello battere sull'incudine, la vecchietta che si recava al cimitero, il prete che usciva dalla sue chiesa, la ragazzina che portava a spasso le oche...riapri gli occhi e ti trovi nel fondo di un girone dantesco.
Affascinante proprio nella sua precaria provvisorietà, in quel riemergere periodicamente dalle acque, come un ricordo, che suona come un monito a tutti quei paesi che sono morti, anche senza essere sommersi dall'acqua; per loro il riscatto è sempre possibile, mentre per il povero Fabbriche di Careggine ormai non c'è niente da fare.

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