domenica 28 dicembre 2014

IL SANTUARIO DELLA BEATA VERGINE DELLE GRAZIE A CURTATONE

Questo è un luogo il cui nome dice sicuramente qualcosa ad ognuno di noi.
Curtatone è il luogo dell'epica battaglia, qui combattuta contro l'imponente esercito austriaco, il 29 maggio 1848, da poco più di 6.000 studenti - in grande maggioranza toscani, sia detto per inciso - e finito come sappiamo, cioè male per i ragazzini, che però permisero con la loro sconfitta, l'avanzata delle truppe piemontesi che vinsero un'importante battaglia il giorno successivo a Goito.
E Montanara? Montanara è una frazione del Comune di Curtatone, dove fra l'altro ha sede il Municipio, essendo Curtatone, uno di quei comuni "sparsi" di cui l'Italia è piena.
Ma noi volevamo parlare del Santuario della Beata Vergine delle Grazie, che è una chiesa assai particolare.

Sorta intorno al 1200 intorno ad un altarino, a cui gli abitanti della zona - zona lacustre, dove la vita ed il lavoro erano molto pesanti - erano assai devoti.
Con il tempo, intorno a questo altarino nacque una chiesetta. Poi, alla fine cdel XIV secolo, il principe Francesco Gonzaga fece costruire la basilica, per grazia ricevuta. infatti si riteneva che la Vergine eresse liberato la città da una epidemia di peste. Il 15 agosto 1406 la Basilica fu consacrata.
La particolarità del luogo è data dalla decorazione interne della chiesa.
Se all'esterno è un pulitissimo gotico Lombardo, dentro colpisce la decorazione composta da statue a grandezza naturale. i "manichini", come vengono detti, sono in realtà fatti in cartapesta, e sono quasi tutti opera di un frate lombardo, un certo Frate Francesco da Acquanegra, che era uno specilista nel lavorare questi materiali poveri.
Raffigurano le persone che hanno ricevuto una grazia, ognuna con la sua didascalia (detta "metopa"), scritta in italiano volgare e  non in latino, che spiega in che circostanza la persona raffigurata ha ricevuto la grazia.
In realtà non si tratta solo di ex-voto offerti da povera gente, che per spender poco utilizzava la cartapesta invece del marmo. Ci sono statue con vestiti veri, di stoffe lussuose, o militari coperti di vere armature, che sappiamo essere un genere assai costoso.

Come se non bastasse questa strana decorazione, dal soffitto a volta pende un coccodrillo impagliato, che colpisce molto chi guarda in alto. E di solito, quando si entra in una chiesa, si guarda sempre in alto!

Probabilmente è stato collocato qui nel XV secolo, portato dai cavalieri crociati, e considerato alla stregua di un drago, come un simbolo del male.

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domenica 21 dicembre 2014

IL MUSEO TAZIO NUVOLARI A MANTOVA

Mantova è una cittadina veramente bella, piena di una vita e di una vivacità, anche notturna, che da noi in Toscana si è un po' persa.
Parlare di Mantova in quanto città - pur deliziosa -  non rientra nei nostri canoni: la nostra "mission" è quella di parlare di cose meno conosciute, o nascoste, o dimenticate,  Mantova non ha certo bisogno di quello che potremmo dire noi, che sarebbe sempre troppo poco, e inadeguato!
Vogliamo invece parlare di un museo, nel quale ci siamo imbattuti e del quale non conoscevamo l'esistenza: il Museo dedicato a Tazio Nuvolari, asso indimenticato e indimenticabile dell'automobilismo - e non solo - italiano e internazionale.

Infatti il grande "Nivola" come era soprannominato, è nato proprio da queste parti, a  Castel d'Ario.
Qui ha sposato nel 1917 quella che sarebbe poi diventata la compagna dell'intera vita, qui è poi morto nel 1953.
Era figlio di agricoltori, ma benestanti, che poterono comprare a quello che era il loro quarto figlio, uno poco incline allo studio ed alla vita contemplativa, una bicicletta. Il padre di Tazio fu un buon ciclista, e suo zio, Giuseppe Nuvolari, un asso delle due ruote, che fu più volte campione italiano e si cimentò persino  nelle prime corse su pista.
Nel 1904 assistette per la prima volta ad una corsa automobilistica, il circuito di Brescia, che si disputava su un tracciato stradale che toccava anche Cremona e Mantova, e vide in azione gli assi dell'epoca: rimase fortemente impressionato e affascinato dallo spettacolo della velocità.
In quello stesso anno lo zio Giuseppe, che Tazio idolatrava e che voleva imitare in tutto, lo fa sedere in sella ad una motocicletta e gli insegna a guidarla.
Infatti, la fama di Nuvolari guidatore di automobili è talmente grande, da far dimenticare che è stato un altrettanto grande e famoso pilota motociclistico!
Ha iniziato la sua carriere professionistica piuttosto tardi - solo nel 1923, a ben 31 anni - proprio solo come corridore motociclista.
 Era così bravo che venne soprannominato "il campionissimo delle due ruote", appellativo che poi venne assegnato a Fausto Coppi.
Una delle prime moto che ha guidato fu la Norton, ma il binomio per cui divenne famoso era con la Bianchi detta "freccia celeste" dal colore della livrea: con quella vinse veramente di tutto.

Era così popolare che non ebbe difficoltà a fondare una propria scuderia, che però ebbe scarsa fortuna.
In seguito cominciò a correre anche in automobile, e cominciò a vincere dappertutto anche lì.
Nel 1932 la sua fama era così grande che Gabriele d'Annunzio- che a quei tempi era qualcuno che contava per davvero - lo volle al Vittoriale, e gli donò un simbolo, una tartaruga d'oro con la dedica
 " all'uomo più veloce, l'animale più lento".
A Nuvolari il simbolismo piacque tanto che fece della tartaruga il suo amuleto, arrivando a farlo dipingere sulla fiancata delle sue auto, del suo aereo, sulla carta da lettere, e sulla sua maglia - gialla -che usava  in corsa.
Con l'auto ha corso un po' con tutti i marchi, come si usava all'epoca.
Maserati, Alfa Romeo, MG, Ferrari, Mercedes Benz, Auto Union (che sarebbe poi l'attuale Audi) sono solo alcune delle grandi marche - tutt'ora esistenti - per il quale Nuvolari ha corso.

E ha vinto, perchè ha vinto talmente tanto che sarebbe stucchevole stare a dire quanti titoli e quali gare!
Purtroppo non è stato altrettanto fortunato nella vita provata. Ha avuto due figli: Giorgio nato nel 1918 e morto nel 1937, a diciannove anni, per una miocardite, e Alberto nato nel 1927 e morto del 1946, a soli diciotto anni, di nefrite.
Questi lutti lo hanno segnato profondamente, tanto che sembrava che alla morte del primo figlio, di cui aveva avuto notizia su un transatlantico che lo riportava in Italia dopo la vittoria alla Coppa Vanderbilt, volesse ritirarsi dall'agonismo.
Nel 1946, la morte di Alberto per poco non lo uccise.
Continuò a correre nonostante fosse quasi avvelenato dalle esalazioni della benzina, che aveva respirato per tutta la vita, sino al 1950.
Nel 1952 lo colpì un ictus, e nel 1953 quello che poi lo portò alla morte.
E' stato l'inventore di quella che conosciamo per "derapata controllata" che si usa tutt'ora nei rally, con la quale si affronta la curva con un secco colpo di sterzo, facendo slittare le ruote posteriori verso l'esterno, e si controsterzava schiacciando l'accelleratore a tavoletta.
E' stato anche un ottimo fotografo: il comune di Mantova ha ereditato oltre 2.500 foto, tutte ottime come composizione, che hanno come soggetto la moglie - in una carrellata sulla moda tra gli anni trenta e quaranta - il mondo delle corse e dei motori, i viaggi da lui compiuti, ed il secondo figlio Alberto, la cui breve vita è stata amorosamente documentata dall'infanzia alla morte.
Molte di queste memorabilia sono esposte nel museo: molte sue foto, soprattutto, scattate da lui o aventi lui come protagonista.

Divise sportive, sia da moto che da automobile, la sua patente - una grande emozione - ben due targhe Florio!, una delle tartarughe, con la dedica autografa di D'Annunzio, e poi coppe, medaglie quante non se ne possono contare....la sua maglia gialla da corsa, documenti autografati, persino la copia del telegramma che lo raggiunse per la morte del figlio maggiore.
Un piccolo museo dedicato ad un grande uomo, situato in una strada laterale, nemmeno tanto visibile, anche se ben segnalato.
Sicuramente da visitare e da apprezzare, così come lo abbiamo apprezzato anche noi.


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martedì 16 dicembre 2014

IL PALAZZO TE A MANTOVA

Possiamo confessarlo: quando abbiamo pensato di andare a Mantova a vedere il Palazzo Te, credevamo di trovare un palazzo in stile giapponese, con tanto di fiori di mandorlo e giardino zen.
Poi abbiamo capito che il te, quello che si beve, non c'entrava niente. 
Il nome deriva da quello dell'isola su cui era costruito, e che si chiamava Teeieto, poi con il tempo abbreviato in  Te. Una delle ipotesi sul nome (quella che ci è piaciuta di più...) deriva  da tiglieto, albero di cui la piccola e  verdeggiante isola era assai ricca.
Infatti, Mantova - incantevole cittadina di cui raccomandiamo vivamente la visita - sorgeva su un'isola, circondata da quattro laghetti formati da fiume Mincio. Poi uno di questi laghi è stato bonificato, e da allora la città è una penisola, affacciata sui tre laghi superstiti. 
L'isola Te era collegata alla terraferma da un ponte, e qui i Gonzaga trascorrevano l'estate.
Se vi chiedete dove passavano l'inverno, sappiate che lo trascorrevano al palazzo Ducale, nel centro storico di Mantova, a non più di cinque chilometri di distanza.
Il palazzo come lo vediamo ora, destinato agli ozi ed agli agi del Principe, come costume del rinascimento, è stato costruito tra il 1524 - anno in cui l'architetto Giulio Romano si recò a Mantova - ed il 1534, su commissione di Federico II Gonzaga, in un luogo in cui sorgevano le scuderie dei loro amatissimi e pregiatissimi cavalli.
 Il binomio cavalli-Gonzaga è noto, tanto che nel palazzo esiste una splendida sala tutta affrescata con i ritratti di  alcuni cavalli del principe, dei quali quattro hanno persino il nome indicato: Morel Favorito, Battaglia, Dario e Glorioso.
In verità ogni stanza, ogni loggia, ogni spazio esterno ha la sua funzione specifica, ed è decorato di conseguenza.
Sarebbe impossibile per noi,  parlare di ogni singola stanza: per questo c'è il sito istituzionale del palazzo.
Oltre alla sala dei cavalli ci ha colpito la famosissima camera dei giganti, un'esperimento mai tentato prima -  e riproposto poi in seguito solo secoli dopo - in cui la conformazione della stanza è molto particolare.
Priva di spigoli, la sua decorazione  esce dai canoni normali - vorremmo dire dell'epoca, ma non solo (un soffitto, quattro pareti e un pavimento) - per permettere a chi entra di trovarsi al centro dell'episodio narrato.
L'episodio riguarda la distruzione dei Giganti, che volevano sostituirsi agli Dei, da parte di Zeus.
Vi ricordate, nei Luna Park anni '70, quelle cupole di plastica in cui si entrava per vedere una specie di cinema tridimensionale, dove il film veniva proiettato su tutta la cupola a 360°?
Ecco, una cosa de genere: solo che in origine anche il pavimento faceva parte della storia!!
Adesso purtroppo le decorazioni del pavimento sono andate perdute.
E poi a noi è piaciuto particolarmente l'esterno, con i suoi spazi, i suoi cortili interni, le vasche d'acqua popolate di pesci,  ed il grandioso emiciclo dell'esedra, che confina con un parco pubblico molto frequentato e vivace.
Incantevole ci è parso anche l'appartamento del Giardino Segreto, un luogo intimo e riservato, fatto fare sull'esempio del Giardino Segreto fatto fare dalla madre del Principe, Isabella D'Este, a palazzo Ducale: un piccolo appartamento, con una loggia e un giardino,

il tutto non visibile dal palazzo principale, e a cui si accede da un'anonima porticina, vicina al colonnato.
Nel palazzo Te, sono radunate anche alcune bellissime collezioni, che ne fanno anche un museo civico.
Confessiamo che l'arte mesopotamica non ci appassiona particolarmente: però l'ambientazione era veramente splendida, curatissima e molto efficace, con una disposizione ed illuminazione delle opere esposte veramente considerevole!

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lunedì 8 dicembre 2014

UNA CITTA' DI FONDAZIONE IN TOSCANA: TIRRENIA (E IL CALAMBRONE...)

Vi ricordate quella rubrica sulla Settimana Enigmistica che si intitolava "forse non tutti sanno che..."
Ecco, forse non tutti sanno che Tirrenia,  una delle frazioni litoranee  del comune di Pisa, è in realtà una citta' di fondazione.
Con questo termine si intendono quegli agglomerati urbani che nascono sulla base di una precisa volontà politica.
Negli Anni '30 del XX secolo, questa volontà politica ce l'aveva Benito Mussolini, che fece nascere una miriade di città di fondazione. La più famosa di tutti è Latina, nell' Agro Pontino - che ai tempi si chiamava Littoria, infatti il nome fu cambiato solo nel dopoguerra - o Pomezia, o Sabaudia, tanto per fare dei nomi noti.
Queste città di fondazione nascevano tutte più o meno nello stesso modo: una piazza centrale, dove era presente una Torre Littoria, e intorno alla quale sorgevano gli edifici principali: il municipio, la casa del fascio, la scuola, l'ufficio postale e così via.
Nello specifico, Tirrenia venne fondata il 3 novembre 1932 per volontà di Costanzo Ciano, livornese, padre di quel Galeazzo che poi diventò genero di Mussolini.
La piazza centrale si chiama Piazza dei Fiori, e gli architetti che la progettarono le diedero questa particolare impronta razionalista, tutta travertino, marmi chiari e superfici lisce.

Furono costruiti vari alberghi e lo stabilimento Imperiale - a quei tempi l'impero era di moda - con albergo, caffè e stabilimento balneare.
Le statue che adornano il complesso, hanno una loro strana dignità storica, data più dal materiale piuttosto vile in cui sono state costruite - come il mattone verniciato - che dall'antichità che si richiederebbe invece ad un marmo autentico.

Qui,in questa stessa costruzione,  negli anni '90 c'era una famosa, omonima discoteca, che attirava frotte di persone da ogni parte d'Italia, durante tutto l'anno, per il famoso mezzanotte-mezzogiorno (orari di entrata e di uscita).
Tirrenia, perla del Mediterraneo - nelle intenzioni di chi la progettò - doveva diventare anche una specie di Cinecittà. Infatti furono costruiti degli Studi Cinematografici, inaugurati nel 1933, e di cui doveva servirsi la propaganda fascista.
 Alcuni film sono stati anche girati, ma gli attori preferivano certamente la Cinecittà di Roma, vicina alla Capitale e sicuramente meglio servita di una città neofondata su una ex-palude ed in mezzo ad una selvaggia pineta!
In definitiva la produzione cinematografica non decollò mai, e gli stabilimenti cinematografici furono usati prima dai tedeschi come deposito di munizioni, e poi dagli americani del Tombolo (vedi post), come deposito di merci varie.
Nel 1961 gli stabilimenti vennero rilevati da Carlo Ponti, ma chiusero definitivamente  pochi anni dopo, nel 1969. L'ultimo film girato in questi teatri di posa fu "Goodmorning Babilonia" dei fratelli Taviani, nel 1987.
A Tirrenia, in fondo al viale dei Fiori troviamo anche questa graziosa ex stazione - adesso adibita a bar ristorante - che costituiva una tappa della ferrovia elettrica Pisa -Tirrenia - Livorno.

Anche questa fu inaugurata nel 1932 , sfruttando e ampliando un pre-esistente ferrovia a vapore che collegava Pisa al suo litorale, detta "il trammino". Visto lo sviluppo del turismo  negli anni '20, fu pensato di prolungarla sino a Livorno, passando dal Calambrone.
Ecco, il Calambrone era detto la zona del litorale a nord di Livorno, era quindi un nome generico, che si vorrebbe far risalile a Caput Labronis, ed in epoca medioevale era da identificarsi con il Porto Pisano. Poi ci fu l'impaludamento dell'Arno, e Calambrone rimase solo una località scarsamente popolata, sino agli anni trenta  del XX secolo, quando, nello stesso periodo della costruzione di  Tirrenia, il regime pensò di utilizzare questo litorale per realizzare le Colonie Estive che caratterizzano tutto questo tratto di costa. Ce ne sono di molto belle e ben restaurate, utilizzate per alberghi di lusso, altre per abitazioni private, altre ancora in completo degrado.

Erano tutte costruzioni realizzate da grandi architetti dell'epoca, alcune classicheggianti, altre razionaliste: tutte proprio sulla riva del mare, su quelle dune di Tirrenia che sono rimaste tra le poche zone che conservano ancora la particolarità delle dune marine, con la loro tipica flora, peraltro protetta da oasi naturalistiche.
Fu  realizzato anche un piccolo centro abitato, che fu chiamato appunto Calambrone. Con la dismissione delle Colonie Estive, nella seconda metà del XX° secolo, la zona che era già poco popolata, cadde nel degrado.
Attualmente è stato però restaurato - a nostro avviso in modo davvero gradevole - e ampliato e integrato con costruzioni moderne, - che mettono in risalto le statue classicheggianti degli anni '30,  e la bella chiesa di Santa Rosa dalle bellissima cupola a gradini.


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domenica 30 novembre 2014

UNA CONSEGUENZA DELLA LIBERAZIONE: DALLA PINETA MALEDETTA DEL TOMBOLO A CAMP-DERBY

Sono in molti a sapere che, nei pressi di Pisa, esiste una delle più grandi basi militari americane in Italia: è Camp Darby, in un luogo logisticamente provilegiato perchè vicino al porto di Livorno,
all'aeroporto di pisa, alla stazione di Pisa, attraversato da un importante canale (il canale dei Navicelli).
Il suo nome deriva da quello del brigadiere generale William O. Darby, fondatore del corpo del Rangers
Fin qui, la stringatissima storia che un civile può conoscere di questa base militare.
Ma questa location ha basi storiche che nella memoria collettiva sono state ampiamente rimosse.
La zona era quella compresa tra il porto di Livorno, il campo d'aviazione di Pisa, e le colonie del Calambrone, arrivando all'interno fin quasi ai confini della bonifica di Coltano, dove fra l'altro, fu istituito un campo di prigionia per fascisti repubblichini e tedeschi.
Dopo la liberazione nella Pineta del Tombolo, dove più o meno adesso si trovano i circa 1.000 ettari di  Camp Darby, si è scritto una delle pagine più nere della nostra storia.
E "nero" non è detto a caso.
Infatti in questa zona si insediarono i militari della divisione "Buffalo", che erano composti in massima parte da truppe di colore (mentre invece i comandanti erano bianchi, ovvio...).
Nell'atmosfera dell'immediato dopoguerra, questi soldati, discriminati dal loro stesso esercito, si trovarono davanti un paese che aveva bisogno di tutto, e non ebbero alcuna difficoltà a inserirsi nei traffici del mercato nero e del contrabbando, favorendo,  in molti casi, furti ai loro stessi quartier generali, essendo questa la base logistica americana più avanzata, nel Mediterraneo, e che  custodiva una quantità enorme di beni.
In questa pineta avevano costruito una specie di villaggio - nel vero senso della parola, perchè si trattava di capanne fatti di rami e con il tetto di frasche -  terreno fertile per tutti i malavitosi della zona.
C'era un po' di tutto: ladri, contrabbandieri, trafficanti, prostitute, disertori, spacciatori, falsari.
Qui potevano vendere, smerciare, barattare in una specie di zona franca,una "città proibita"  dove si poteva perdere l'anima o la vita,  e dove nemmeno i Carabinieri si azzardavano ad entrare,
Ci sono un paio di film che raccontano questa vicenda: uno è il bellissimo "Senza Pietà" di Alberto Lattuada, che non parla nello specifico di questa storia, ma ne mostra molto bene il contesto.
L'altro, meno bello ma assai più realistico, si intitola "Tombolo paradiso nero".
Sono film dell'immediato dopoguerra, difficili da reperire, ma meriterebbero di essere visti, se non altro per farsi un'idea dell'ambiente e delle condizioni di vita.
Una curiosità: in entrambe i film, il protagonista di colore è sempre lo stesso attore di colore, John Kitzmiller, la cui carriera cinematografica non è andata molto oltre questi due film.
Nel febbraio del 1947 viene firmato un armistizio che prevede la consegna all'Italia delle strutture militari e civili, e lo sgombero delle truppe rimaste: fu necessaria un'azione congiunta tra Carabinieri  e Militar Police, per permettere che  il 14 dicembre di quello stesso anno le ultime truppe lasciassero  la zona.
Nel 1948 viene firmato un accordo Italia-USA che prevede la creazione di un Centro Sbarchi USA.
Intanto dal Porto di Livorno (e poi ovviamente dal Tombolo) continuano a transitare un'enorme quantità di aiuti del Piano Marshall, e gli affari continuano a prosperare...
Nel 1951 la Pineta del Tombolo viene concessa agli Stati uniti con un trattato bilaterale, e nel 1952 assume il nome di Camp Darby, e diventerà la base per il ritiro ed il reimbarco dei soldati, degli equipaggiamenti e degli approvvigionamenti.

Non vogliamo entrare nel merito di quello che la base può essere stata negli anni successivi: voci di custodia di armi nucleari, di transito di prigionieri di guerra, di torture e uccisioni di persone scomode...  Sono tutte cose che, pur interessandoci, non vogliamo trattare in questo contesto.
Sicuramente è una base logistica di enorme importanza, dove mezzi e munizioni e rifornimenti vengono custoditi tutti insieme, tanto che un'intera brigata può trasferirsi - ipotesi -in medio oriente senza portarsi dietro nemmeno un pacchetto di fazzoletti di carta.
E' altrettanto  certo è che quest'area enorme, proprio per la presenza della base,  si è mantenuta integra dal punto di vista naturalistico: qui vivono ancora molti animali selvatici, che nella vicina pineta libera - nel senso di non recintata con il filo spinato - non vivono più da molti anni, e la vegetazione somiglia molto a quella voluta dal Granduca di Toscana - il Lorena, non il Medici - che ne volle la piantumazione,  alla fine del XVIII secolo.

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domenica 23 novembre 2014

IL TRASMETTITORE DI MARCONI E COLTANO

Coltano è uno di quei luoghi, che tanto ci piacciano, a metà tra terra e acqua.
Come il Padule di Fucecchio (vedi link) o l'ex lago di Bientina (vedi Link), Coltano è il risultato di una bonifica, fatta però in epoca fascista.
Il luogo era tuttavia una riserva dei caccia dei Medici, che, tanto per cambiare, avevano qui una villa.

 Anzi, un "casino di caccia", così chiamato perchè era un'abitazione più semplice e rustica, adatta ai gentiluomini che qui potevano coltivare la loro passione venatoria: meno alle dame, perchè mancante di tutti i confort egli agi che una vera e propria villa doveva avere. 
Tuttavia, questa è stata una delle poche ville apprezzate e abitate anche dai Lorena, rispetto allo sterminato patrimonio immobiliare lasciato loro dai Medici.
 Infatti i Lorena, da buoni tedeschi, consideravano queste ville come un inutile e dispendioso fardello, ed erano poche le abitazioni che hanno continuato a frequentare durante i loro Granducato.
Coltano era una di queste.
Il capoluogo del borgo rurale, è situato su un piano lievemente rialzato rispetto alla ex palude, adesso in gran parte coltivata, e si chiama Palazzi, 
Qui, oltre alla villa, sorgono le scuderie, realizzate su progetto del Buontalenti, ed alcune altre abitazioni rurali.
 Il luogo è solo in apparenza desolato: la sua natura di ex-palude si vede molto bene: dalla terra pare salire, insieme ai lievi vapori dell'acqua che trasuda dalla terra nera e grassa, una sensazione di pace antica, estranea alle tradizionali campagne toscane, più mosse da colline, piccoli boschi, fondovalli stretti e strade tortuose fiancheggiate da cipressi.
Somiglia forse alla  pianura padana, ma più raccolta, più intima. Nemmeno troppo lontano si vedono i monti Pisani. E' come essere in un lago, invece che nel mare: si, la proporzione è questa!.
Coltano ha anche un record, di cui siamo rimasti un po' stupiti. Nel suo territorio infatti, transita il più lungo viadotto autostradale d'Italia, lungo ben 9.619 metri.
In realtà si tratta più di una sopraelevata: non era certamente sicuro costruire la A12 direttamente su questi terreni paludosi, per cui fu ritenuto più sicuro fare questo viadotto, che ha il pregio di passare sopra i territori geologicamente meno stabili.
Nel territorio di Coltano, alla fine dell II guerra Mondiale, fu gestito dalla V° armata americana di stanza in Italia, un campo di prigionia per prigionieri appartenenti alla Repubblica Sociale, o militari tedeschi o in generale collaboratori del precedente regime. Si trattò di un campo provvisorio, che durò una sola estate, tra maggio e ottobre del 1945.
Altra storia dimenticata  che riguarda Coltano: 
A pochi chilometri dalla ville medicea, sorge un centro, voluto e gestito da Guglielmo Marconi in persona, dal quale, nel 1931, diede il segnale di accensione delle luci sul Cristo Redentore di Rio de Janeiro.
Il centro fu inaugurato nel 1911, sui terreni all'epoca di proprietà della Casa Savoia e che, proprio a causa della sua natura paludosa, si prestava meglio di altri alla trasmissione a onde lunghe.
Inoltre, risultava al centro del Mediterraneo, quindi nella zona più adatta per poter  inviare il segnale a quelle che allora erano le basi coloniali italiane: la Libia e l'Eritrea. Il centro fu utilizzato anche dalla Regia Marina per la trasmissione alle navi.
 Furono costruite delle torri enormi, alte oltre 75 metri, con dei basamenti immensi, che sono l'unica testimonianza rimasta, visto che le torri furono minate e abbattute dai tedeschi dopo il 1943, ma che tuttavia non siamo riusciti a localizzare.
La palazzina di Marconi è ancora in piedi, sia pure in condizioni pietose: diroccata, invasa dalle erbacce, spogliata di tutte le attrezzature ed arredi. Un vero scempio, alla quale nemmeno l'autorità e l'impegno della figlia di Marconi, Elettra, è riuscito a porre rimedio.
Era conosciuto all'estero, per essere il più importante centro di trasmissione in Europa, eppure l'Italia l'ha completamente dimenticato. E' proprio la classica storia sparita dalla memoria collettiva, come purtroppo il nostro paese ci ha abituato a fare.
Tutto questo ci ha ispirato delle amare riflessioni: forse troppe vestigia, troppi ruderi antichi, troppe opere d'arte ci hanno viziato, e portato a fare una scelta tra quello che può essere valorizzato e quello che può essere dimenticato o distrutto.
In un altro paese una storia del genere sarebbe stata insegnata nelle scuole, mentre forse, nemmeno chi abita nella vecchia palazzina Rai, conosce la storia del posto.

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domenica 16 novembre 2014

LE CHIESE MAGICHE DEL MONTALBANO

Girovagando, un po' in tutta Italia si trovano "Ponti del Diavolo", tipo quello che si trova sul Serchio, andando verso la Garfagnana, oppure quello di Bobbio, che attraversa il fiume Trebbia, poi ne conosciamo un altro nel Bolognese, e chissà quanti altri ce ne sono.
A San Gimignano esiste pure una Torre del Diavolo: si tratta di costruzioni che, nella memoria popolare "sono stati costruiti in una notte". 
Si va a letto la sera e sul fiume non  c'è niente, ci si sveglia la mattina - anche prestino, perchè ci sono da lavorare i campi - e, paff!, eccoti il ponte!
Mica male come costruttore, questo Diavolo... ci sarebbe un'autostrada o due da fargli finire! Dov'è quando serve?!
Chissà come mai, in epoca recente, il Diavolo ha smesso di costruire. 
Non è che era - anche a quei tempi - un modo come un altro per evitare di pagare ICI, IMU, TASI o come cavolo si chiama adesso?!

Tuttavia, nel Medioevo non era solo il Diavolo a costruire.
Ci si mettevano anche i Santi!
Sul Montalbano, ci sono infatti tre antiche chiese, legate da una bellissima leggenda: 
Tre monaci francesi, provenienti dal Monastero di Cluny-  sede di una prestigiosa comunità Benedettina, - decisero di stabilirsi in questi luoghi.
A quei tempi, parliamo del X° secolo, il Montalbano era certo un luogo selvaggio, dove era facile imbattersi nei banditi o in qualche animale feroce.
I Monaci decisero quindi di costruire ognuno  una piccola chiesa, con annesso un romitorio, che poteva servire anche da spedale per assistere i viandanti: infatti si collocavano tutti su un asse viario altomedioevale, che collegava l'Arno nel suo punto più stretto - la Gonfolina - da Firenze a Pistoia.
Questi tre monaci si chiamavano Alluciem, Justis e Barontes.
la leggenda narra che chiesa e romitorio furono costruiti tutti e tre in una sola notte, e visto che avevano fatto il voto di povertà, avevano una sola mestola per la calce in tre, e se la passavano per costruire i tre edifici.
Qui il Diavolo davvero non c'entrava niente, visto che erano tre santi.
La prima è San  Giusto (Justis) al Pinone (nel comune di Carmignano)
L'edificio, non molto lontano dalla strada principale,  è stato ricostruito parzialmente nel XIX secolo, ed  è visitabile solo dall'esterno: infatti  la chiesa è chiusa al culto ed in  stato totale di abbandono, pur essendo proprietà privata.

La seconda è San Baronto (Barontes), nell'omonima frazione del comune di Lamporecchio; 
La chiesa originale fu consacrata nel 1018, e ne resta una piccola cripta,  ma quella che si può vedere adesso è stata ricostruita nel secondo dopoguerra. Però è una chiesa parrocchiale, e quindi ancora vitale.

Sant'Allucio (quindi Alluciem) a Tizzana (poi diventato comune di Quarrata).
Purtroppo quest'ultima, che rispetto alle altre è abbastanza lontana dalla strada asfaltata, ho subito la sorte peggiore. La torre è quasi distrutta, e del romitorio, che è stato adibito per secoli ad uso rurale,  rimangono solo pochi ruderi, divorati dalle erbacce. 

Ora, questi tre luoghi non sono lontanissimi tra di loro, ma è evidente che i tre santi non potevano passarsi la cazzuola tra di loro, specialmente pensando alla viabilità dell'epoca a cui si fa riferimento.
Il miracolo era giustificati, ai tempi della costruzione dei tre edifici sacri!


domenica 9 novembre 2014

LE CERTOSE IN TOSCANA - CALCI


In Toscana ci sono quattro Certose, cioè edifici monastici fondati sulla regola creata da San Bruno nel 1084 , e che prende il nome dal massiccio della Certosa, in Val'd'Isere, dove San Bruno si rifugio' insieme a sei compagni per condurre vita eremitica.
Particolarità dell'ordine Certosino è quello di essere composto da "solitari riuniti come fratelli", per cui è vero che vivono insieme secondo delle regole, ma in clausura ed in silenzio.
Una delle più bei monasteri certosini, è sicuramente questo, a soli 10 km da Pisa ( e infatti è conosciuta anche come Certosa di Pisa), ma  attualmente nel comune di Calci.

Il nome della località dove si trova la Certosa, ai piedi del Monte Serra, è tutto un programma: Val Graziosa. Vi possiamo assicurare che mai nome fu più appropriato!
La certosa fu fondata nel 1366, ma la gran parte dell'architettura dell'edificio è di chiara ispirazione barocca, molto lussuosa.
Una particolarità sono i pavimenti, tutti in marmo di Carrara, in tre tonalità bianco, nero e grigio.
Sono stati posati tutti in maniera prospettica, per cui cambiano a seconda del punto da cui si guardano. 
Ogni Cappella - e sono 14, una per ogni Padre Capitolare - ha un pavimento dal disegno diverso, ma sempre con le caratteristiche appena descritta.
Inoltre ogni cappella è riccamente affrescata, e adorna di un altare in marmo.
I Padri, come si è detto, erano 14. E Tanti rimanevano, nel senso che non ne poteva essere ammesso un altro se non per la morte di un suo predecessore. Erano sempre nobili, o ricchi, o entrambe le cose: il loro compito era esclusivamente quello di pregare, ed erano legati al vincolo della più stretta clausura. I loro alloggi davano su questo chiostro - uno dei tre della Certosa -

e ne uscivano solo la domenica a pranzo, quando tutta la comunità, Padri e fratelli conversi - quelli che venivano dal popolo, che con il loro lavoro mantenevano tutta la comunità e che non erano legati al vincolo della clausura - si riuniva nel magnifico refettorio, anche quello affrescato in maniera prospettica.
Solo dopo il pranzo della domenica, i frati avevano il permesso di conversare tra di loro per un'ora. Tutto il resto del tempo dovevano passarlo in silenzio, secondo la regola certosina.
Passavano tutta la settimana nelle loro celle, e ognuna di loro aveva una porticina che dava sul chiostro, da dove uno dei fratelli conversi forniva il cibo per la giornata.
Abbiamo visitato una delle celle, e sinceramente non era poi così piccola. L'entrata dal chiostro, dava su un giardino, non troppo piccolo, e salendo due gradini si entrava in una stanza dove il padre mangiava e studiava.

Accanto c'era la camera da letto - tutte le finestre guardavano sul giardinetto interno . poi c'era una stanza in cui i padri potevano assolvere all'obbligo di un lavoro manuale, come previsto dalla regola,   e in ultimo c'era il bagno.
Sinceramente, abbiamo visto appartamenti moderni assai meno spaziosi!
I fratelli conversi invece, provenivano dal popolo e svolgevano i lavori che permettevano al monastero di sopravvivere. Quindi lavoravano la terra, allevavano il bestiame, cucinavano, pulivano e in piu' pregavano.
Può sembrare una distinzione di classe - ed in effetti per la nostra mentalità moderna lo è - ma per l'epoca non era così. Nessuno pensava che un nobile potesse svolgere un lavoro manuale, e inoltre per la mentalità medioevale, pregare era un lavoro come un altro.
La suddivisione era chiara: i nobili comandavano - e combattevano, dove era necessario - il clero pregava ed il popolo lavorava. In questo modo ognuno aveva la sua occupazione, accettata e codificata,  e ogni strato della popolazione dipendeva dall'altro. Nessuno si sognava di mettere in discussione questo stato di cose: l'epoca delle rivendicazioni sociali  nell'XI secolo,  quando è stata creata la figura del fratello converso, all'interno dell'ordine certosino, era assai lontana da venire.
Comunque, i fratelli conversi avevano lo stesso degli appartamenti come quelli dei Padri, forse - ma di poco - più piccoli.
I padri vivevano in clausura, mentre invece, per ovvie ragioni, la regola non valeva per i fratelli conversi.
Tutte e due le figure erano invece tenute ad osservare il più rigoroso silenzio.
Esiste a  questo proposito un bellissimo film, girato nella grande Grande Certosa a Grenoble, che si intitola appunto "Il grande silenzio"e che dà un'idea della vita certosina.
Sono due ore di film, quasi completamente muto. Ma se qualcuno ha voglia di vederlo, è una grande esperienza!
La Certosa, che era forse la più importante del Granducato, aveva un'ala completamente dedicata a foresteria, dove i parenti dei Padri, ma anche nobili desiderosi di un'esperienza mistica, o semplicemente  di tranquillità, potevano trascorrere alcuni giorni.
Vista la particolare attenzione che il Granduca (stiamo parlando di Leopoldo di Lorena, non dei Medici...) aveva per il monastero, il Priore fece costruire un appartamento, detto appunto "Granducale" dove il Lorena poteva trascorrere il suo tempo quando era in zona.

L'appartamento, che ha ancora i suoi arredi originali, non è grande ma ha una vista da urlo: dalle sue ampi finestre, oltre a quelli che, ai tempi di maggior splendore del monastero, erano gli orti, si vede in lontananza il porto di Livorno, e girandosi di poco, la cupola del duomo di Pisa, nonchè la torre pendente!
I monaci hanno vissuto qui in comunità sino al 1972.
Dopo qualche anno di abbandono, l'edificio è stato rilevato dall'università di Pisa, che ha qui gran parte dei suoi uffici e magazzini.
Il possesso dei quattro quinti dell'edificio da parte dell'istituzione Universitaria, permette la visibilità della parte visitabile.

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domenica 26 ottobre 2014

LA PALUDE DI COLFIORITO

Conoscevamo Colfiorito per la famosa, squisita  patata rossa, e per le altrettanto note lenticchie. Ma non sapevamo che su questo altopiano c'era un piccolo parco regionale, che racchiude i resti di una zona umida. Allora abbiamo deciso di andare a visitarlo.
Per prima cosa abbiamo scoperto una cosa in sè abbastanza logica. Colfiorito è in Umbria, e quindi, in epoca preunitaria, faceva parte dello Stato Pontificio, e sino agli anno '60 è stato di proprietà della Camera Apostolica.
Lo Stato Pontificio aveva cercato di bonificare l'altipiano, che era una grande palude, tramite degli inghiottitoi - cioè delle caverne naturali che facevano defluire le acque di un altipiano verso il basso - ma degli eventi naturali, negli anni li avevano fatti crollare.
Dopo vari tentativi di bonifica -  ovviamente riusciti visto che adesso l'altipiano è coltivato e abitato - ci si è resi conto che la zona umida, assai ricca e varia, fornita anche di un a torbiera, andava preservata per quanto possibile.
Il parco era stato istituito nel 1955, ma solo negli anni settanta si è arrivati a questa conclusione...
Adesso può sembrare una cosa ovvia, cercare di proteggere queste zone umide, ma non è stato sempre così: anzi sembrava che tutto ciò che aveva a che fare con laghi paludosi, fosse considerato una specie di abominio che andava eliminato nel più breve tempo possibile. Fortunatamente si è acquisita la coscienza che queste zone sono molto importanti dal punto di vista naturalistico, e si è cercato di preservarle, e dove è stato possibile, persino di recuperarle.
Adesso, di tutto l'altipiano, rimangono un centinaio di ettari a disposizione della palude, che è un vero scrigno di biodiversità.

La prima bonifica dell'altipiano carsico fu tentata nel XV secolo ad opera di alcuni ingegneri fiorentini, su commissione di Giulio Cesare Varano.Questa opera idraulica era detta "Botte dei Varano". Quando nel 1997 si verificò il terremoto, l'opera idraulica è andata distrutta, ed è stata sostituita da un collettore sotterraneo parallelo. Nell'effettuare i lavori, si è scoperto che esisteva già un collettore di epoca romana - di cui non esistevano tracce documentate - costruito in travertino.
Rimangono un mulino, (il Mulinaccio ) in prossimità di uno degli inghiottitoi, che si tentava di far funzionare con il movimento delle acque palustri verso il basso.

Il laghetto della Fagiolaia, molto bello, con un percorso che in teoria dovrebbe farne il perimetro.

In pratica non è possibile girarlo tutto a piedi, perchè il sentiero è molto trascurato,e invaso dalle erbacce, e i casotti di legno che servono per osservare la fauna lacustre, sono stati pesantemente danneggiati da qualche stupido teppista.

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domenica 19 ottobre 2014

SAVIGNANO DI PRATO E LORENZO BARTOLINI

Lorenzo Bartolini è stato un grande scultore italiano, il più grande dell'epoca (nato nel 1777 e morto nel 1850, tanto per dare un'idea) dopo Antonio Canova.
Di solito di lui si dice che è nato a Prato, ma non è esatto. E' nato in questo piccolissimo paesino, Savignano di Prato, posto nella Val Di Bisenzio, a dominare l'abitato di Vaiano.
Questa la sua casa natale, monumento locale ma ormai proprietà privata, e quindi non visitabile.

Certamente in origine era una fattoria, poi adattata a villa.
Il nome di Savignano ci dice che il paese ha origini romane, come del resto molti altri nelle vicinanze. Si sa infatti che la Val di Bisenzio fu luogo di una centuriazione romana, dove l'impero, per pagare i suoi soldati, assegnava loro delle terre. Nell'attuale Vaiano è facile ritrovare il nome della famiglia Vaia, e lo stesso esercizio si può fare per Sofignano, Faltugnano, Popigliano, Schignano, tutte collocate lungo il Bisenzio.
Ed ovviamente questo vale anche per Savignano.
Essendo una frazione un po' isolata, Savignano ha saputo conservare meglio  la sua origine romana. Infatti, verso la località Mulino troviamo un tratto di strada romana, molto ben visibile, ovviamente mai restaurata , nè si è tentato di conservarla - anzi non mancano i tentativi di asfaltatura - e, nascosto sotto una vegetazione fittissima, anche un piccolo ponte romano, che attraversa il torrente locale, il Rio La Nosa. Abbiamo potuto  localizzare il ponte, solo grazie alle indicazioni della gente del posto.

E' qui conservata anche la piccola chiesa dei Santi Andrea e Donato, che è invece di origine medioevale, nel tipico alberese della zona, e una villa padronale, appartenuta ad una potente famiglia pratese, i Buonamici.

Sembra tanto per un posto così piccolo, ed è vero. Oltre a quello che abbiamo descritto non ci sono che altre sette o otto case, di cui parecchie destinate alla villeggiatura di chi sa apprezzare il panorama, veramente splendido, e la grande quiete.
Perchè qui non c'è veramente altro: amministrativamente adesso è una frazione del comune di Vaiano, e la strada asfaltata è una conquista recente!
Sicuramente in questa quiete è cresciuto il talento di Lorenzo Bartolini, che ha saputo diventare nientemeno che lo scultore ufficiale di casa Bonaparte, grazie anche ai buoni uffici di Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone e granduchessa di Lucca e Piombino, che lo aiutò anche a diventare professore di scultura presso l'accademia di belle arti di Carrara.
Certamente un gran bel colpo, che dovette però pagar caro dopo la caduta definitiva di Napoleone nel 1815. Fortunatamente sopravvisse grazie alle commissioni di parecchi facoltosi stranieri, tra cui anche il principe Antonio Demidoff, per il quale scolpì un monumento in memoria del padre, che si trova ancora in piazza Demidoff a Firenze.

La  scultura è stata realizzata in un marmo assai particolare, detto "zuccherino" molto pregiato ma altrettanto delicato. Per cui insieme alla scultura fu realizzata anche la pensilina che la protegge.
Il suo stile si distaccava dal neoclassicismo del Canova - e anche per questo ebbe un periodo di vita dura - e si ispirava ad uno stile più naturalistico, detto "purismo".
Dal 1839 fu anche docente all'accademia di belle arti di Firenze, e nel 1855 fu l'unico scultore italiano ad avere critiche positive - anche se evidentemente postume - all'esposizione universale di Parigi.
A Prato è conservata una sua scultura, la filatrice.


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domenica 12 ottobre 2014

I BORGHI ALTI DI CALENZANO

Come molti altri borghi sparsi in tutta la Toscana, anche Calenzano si è sviluppato in pianura solo in epoca recente.
Il suo cuore è certamente il borgo di Calenzano Alto, che sorge su una delle due collinette, il cui fondovalle ci porta direttamente verso il Mugello, tramite una variante della Cassia, e che ora è denominata Strada Militare per Barberino (SP8).
Il borgo di Calenzano alto - o Calenzano Castello, o, semplicemente, Castello - è ancora completamente cinto dalle sue mura medioevali,

ad un'altitudine  di per sè modesta, circa 200 msl, ma che permette tuttavia un'ampia visione sia sulla sottostante valle del torrente Marina, che scorre proprio sotto, sia sui primi contrafforti appeninnici che sorgono andando verso la Val di Sieve, alla quale si accede dal Passo delle Croci di Calenzano.
Le Croci di Calenzano sono un altro borgo alto di Calenzano, dove sorgono principalmente buoni ristoranti e poco altro. Anticamente il luogo si chiamava Combiate, e qui è sempre esistita un'osteria che permettesse ai viaggiatori di ristorarsi durante il lungo e faticoso viaggio da Prato ai borghi mugellani: Barberino - che è il più prossimo - poi San Piero a Sieve, Scarperia e Borgo San Lorenzo.
Ma torniamo al Castello, che è il Borgo più caratteristico: infatti, oltre a custodire il museo del Figurino Storico, è anche un borgo medioevale intatto, con la sua tipica forma ovale,  con le sue chiese, tra cui spicca quella di San Niccolò, la sua antica villa padronale, il cui giardino - ormai una giungla tropicale - arriva giù fino al torrente Marina, ed è cinto di alte mura  nelle cui prossimità sorge una frequentata pista ciclabile.
Ci sono due  belvedere, uno in prossimità della porta detta "Portaccia" con arco a sesto acuto, dal quale però si vedono solo insediamenti industriali e centri commerciali.
Molto meglio il belvedere posto dall'altro lato, dal quale si dominano il torrente Marina e le morbide colline che ci portano in Mugello.
Più piccolo e tutto incentrato sulla chiesa di San Donato, è il borgo - appunto - di San Donato, che ha più l'aria di borgo rurale, visto che, oltre alla chiesa, ci sono solo fattorie, e poche case che si inerpicano lungo una spettacolare stradina.






domenica 5 ottobre 2014

PONTE BURIANO E LA GIOCONDA

Esiste un quadro più famoso della Gioconda?
Al Louvre è esposto in una sala dove si possono ammirare capolavori immortali di autori a dir poco immensi: bene, nessuno se li fila;  in compenso davanti a questo quadrettino di dimensioni assai modeste c'è sempre un assembramento di gente che fotografa all'impazzata - ma lo guarderanno il quadro, o si accontenteranno di vedere poi le foto a casa? e in questo caso, che ci sono andati a fare al Louvre? Mah - gira filmini, si va venire gli svenimenti per l'emozione.
Non vogliamo parlare della Gioconda, ma del Ponte a dorso d'asino a sette arcate  che si vede sullo sfondo, sulla destra in basso.

Questo ponte  esiste tutt'ora sulla strada Setteponti,  tra Arezzo e Castiglion Fibocchi, su quella che in tempi romani era la Cassia Vetus e che univa Firenze a Roma. E' stato costruito tra il 1240 e il 1277, quindi ci sono voluti quasi 40 anni per costruirlo, perchè in questo punto l'Arno non è profondo, ma è molto ampio.
La bellezza di questo ponte non si apprezza certo passandoci sopra: è stretto e per percorrerlo c'è da sottoporsi alla tortura di un semaforo a senso unico alternato, dove il verde  dura pochissimi secondi

Bisogna scendere dalla macchina e andare a vederlo lungo le sponde del fiume, che in quel punto offrono un paesaggio splendido, con isole piene di vegetazione e sponde verdi e tranquille. Naturalmente è solo apparenza: il ponte in 850 anni di storia ha sopportato una gran quantità di piene - anche distruttive, tipo quella del '66 che tanti danni ha fatto a Firenze - e ha superato indenne persino la seconda guerra mondiale, dove i tedeschi avevano l'abitudine di minare tutti i ponti da dove passavano.
Anche questo fu completamente minato, e sarebbe esploso se l'esercito alleato non fosse riuscito a salvarlo in extremis!
Proprio da qui parte la riserva naturale di Ponte Buriano e  Penna, dove Penna è la diga che è stata ri costruita dopo l'alluvione del 1966, e dove - questo è un particolare davvero curioso - l'Arno riceve le acque del Canale Maestro della Chiana, che è un canale artificiale costruito tra il XVIII e il XIX secolo, per evitare l'impaludamento della Val di Chiana, sfruttando canali già costruiti in precedenza dai Medici prima e dai romani ancora prima.  Beh, questo canale prima era un affluente del Tevere, e invece è poi diventato affluente dell'Arno!
Con le tecniche digitali odierne, è stato definito il punto da cui Leonardo da Vinci ha osservato il ponte: pare che fosse il Castello di Quarata, che è una frazione a pochi chilometri da  Arezzo.


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domenica 28 settembre 2014

LA CHIESA DELL'AUTOSTRADA DEL SOLE

A 282 km da Milano e a 298 da Roma, nel comune di Campi Bisenzio in località Limite, sorge la Chiesa dedicata a San Giovanni Battista, conosciuta come  "Chiesa dell'Autostrada" dove per Autostrada si intende la  prima, grande infrastruttura che fu costruita appunto negli anni '60, e cioè l'Autostrada del Sole (o Autosole, o, più correttamente, A1)

A quei tempi era esattamente a metà, perchè la A1 partiva da Milano ed arrivava a Roma. Solo nel 1988 è stata completata  la bretella Fiano Romano - San Cesareo, che univa la A1 alla A2 Roma-Napoli, facendo in modo che non fosse più necessario percorrere il G.R.A. per percorrere la A2 .
Da allora infatti l'autostrada A1 viene chiamata Milano-Napoli e la A2 è stata eliminata  dalle classificazioni delle Autostrade.
Parlando della Chiesa si deve per forza parlare anche dell'Autostrada, perchè fanno parte di un tutto unico: la posa della prima pietra della A1 risale al 19 maggio 1956, e l'inaugurazione del 1° tronco, da Milano a Parma, risale all'8 dicembre del 1958. Solo due anni più tardi, il 3 dicembre 1960 fu inaugurato il tratto più difficile e complesso di tutta l'opera, quello da Bologna a Firenze.
Siccome fu inaugurato prima il tratto Roma-Napoli (22 settembre 1962) e solo il 4 ottobre 1964 fu inaugurato il tratto Chiusi-Orvieto (il traffico si svolgeva sulla SS71; rabbrividiamo al solo pensiero!) dalle parti di Firenze, a quei tempi, si diceva che sino a Firenze c'era l'Autostrada, e da Firenze in poi c'era il sole...
Ma adesso occupiamoci della Chiesa, capolavoro dell'architetto pistoiese Giovanni Michelucci.
Inaugurata nell'aprile del 1964, è stata eretta a memoria dei tanti operai che sono morti nella realizzazione dell'asse viario. Michelucci non ebbe vita facile nella realizzazione, perchè dovette intervenire a fondazioni già effettuati, visto che il precedente progetto, per il quale si era posato la prima pietra nel giugno del 1960 dall'Architetto Lamberto Stoppa, era stato accantonato per divergenze con la Soprintendenza ai monumenti.
Però molte opere che avrebbero dovuto decorare la Chiesa erano già commissionate  - alcune addirittura hanno poi  decorato qualcos'altro - e Michelucci dovette lambiccarsi il cervello per mettere insieme le sue idee con le esigenze degli artisti, che stavano lavorando ad un progetto sviluppato in maniera diversa.
 Tuttavia proprio questo doversi in qualche modo adattare - ma le fondazioni furono tutte rifatte di sana pianta - ha stimolato la creatività dell'Architetto, che, per ospitare le bellissime sculture in bronzo raffiguranti i Santi Patroni delle città toccate dalla'Autostrada, ha creato questo ampio nartece (se non sapete cosa vuol dire non posso possiamo biasimarvi: il nartece è un'atrio precedente la chiesa, che era molto diffuso nelle basiliche sino al sino al gotico nel  XII e XIII secolo . Poi, basta. )
Esternamente ricorda una tenda, quella del popolo d'Israele nelle sue perenigrazioni, a ricordare a chi percorre l'autostrada - che è così vicina che sembra di toccarla - la propria condizione di viandante.
E' costruita in quello che viene chiamato "sasso da muretto", scalpellato a mano, con particolari in cemento, oltre alla spettacolare copertura in rame ossidato,  che colando sulle pietre bianche o sul cemento grigio ha creato un effetto - che sicuramente l'architetto aveva previsto -  veramente notevole.
La porta principale in bronzo è opera di Pericle Fazzini.

Oltrepassato l'atrio - il nartece - con opere di Emilio Greco e di Venanzo Crocetti, si entra nella chiesa vera e propria.

All'interno la pietra ha un colore diverso, più caldo,  le finiture in rame conservano il loro colore e persino le enormi travi in cemento sono beige-rosato.
I pavimenti sono in marmo, di vari tipi ma sempre di colori molto caldi, e nell'aula principale disegnano un insieme di cerchi concentrici.
La grande vetrata con l'immagine del Cristo è bianca e luminosissima, tanto che il piccolissimo crocifisso che guarda l'altare maggiore, entrando quasi non si nota.

Le pareti sono completamente nude.
Anche persone poco competenti di architettura come noi, si rendono conto che la pianta della chiesa è rovesciata rispetto alla norma. Infatti si sviluppa per larghezza, ed ai lati ci sono la cappella della Vergine, illuminata in maniera molto particolare, e quella dell'imponente crocifisso in bronzo di Jorio Vivarelli.
Quello che ci ha maggiormente colpiti, tuttavia è il non-silenzio.
La Chiesa è talmente vicina all'autostrada che se ne sente il rumore continuo e incessante, diversamente a tutte le altre chiese dove caratteristica fondamentale è il silenzio assoluto e totale.

Come se l'autostrada, che ha permesso la nascita del tempio sacro proprio per commemorare coloro che sono periti nella sua costruzione, volesse ricordarsi continuamente al suo interno. Come se il fatto di essere lì, fosse imputabile solo al fatto di aver percorso l'autostrada, e si facesse una sosta - breve - per poi subito ripartire.
Fermarsi per la bellezza del luogo, dei colori e  delle pietre, per dire una preghiera che ci aiuti ad arrivare sani e salvi alla meta, ma sempre rimanendo connessi alla grande strada che corre là fuori e che è l'essenza stessa della chiesa. La Chiesa è dell'autostrada - lo dice il suo nome - e non il contrario. Tanto è vero che, uscendo nel bel giardino esterno e percorrendo il vialetto che ci gira intorno, ci si ritrova nel parcheggio della direzione del IV tronco.

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